Il titolo, Da Vittorio, storie e ricette della famiglia Cerea, non poteva non evidenziare i protagonisti di una realtà ristorativa che sfiora l’unicità, nata nel 1966 a Bergamo e trasferitasi nel 2005 nella vicina Brusaporto, da zero al firmamento (g)astronomico mondiale partendo da panini che oggi definiremmo gourmet e che oltre mezzo secolo fa erano novità a tutta acquolina. Con i figli formidabili a portare ancora più in alto quanto ricevuto dai genitori. In Italia un solo altro caso, quello degli Alajmo in Veneto. Una stella mamma e papà, due e poi tre la generazione seguente.
Quello autentico è però un altro e lo troviamo, dopo i saluti di Daniel Boulud e Joan Roca (ecco un’altra grande famiglia, catalana per la precisione), a pagina 15 del volume curato da Mondadori, ora in italiano e da febbraio pure in inglese: Essere un Cerea. Che

Tutto perfetto e intenso nello scatto di Giovanni Gastel. Da sinistra Bobo, Rossella, mamma Bruna, Barbara, Francesco e Chicco Cerea
non è affatto facile come ha raccontato
Mapi Danna, pagine scritte che si alternano a quelle illustrate dalle immagini di
Giovanni Gastel, i ritratti, e di
Paolo Chiodini, i piatti.
Essere un Cerea: Bruna, Enrico, Francesco, Barbara, Roberto e Rossella. La madre i cinque figli avuti con Vittorio, salito in cielo pochi mesi dopo l’apertura della nuova struttura, conosciuto poco più che ventenne nel bar della famiglia di lui. Vittorio stava al di là del bancone con i suoi panini e Bruna al di qua con i suoi occhi da innamorata. Non che non le piacessero, ma un panino lo mangi in fretta. Così lei ordinava immancabilmente una tazza di cioccolata calda perché poteva centellinarla e stare più tempo possibile lì per farsi notare e apprezzare. «Il resto lo fece sua madre, mia suocera e io eravamo alleate perché capitolasse».

Pane, burro e acciughe di Monterosso, sublime benvenuto nella cantina di Vittorio a Brusaporto
Essere un
Cerea vuole dire lavorare fin da ragazzini. A scuola e poi subito al ristorante per dare una mano e solo a servizio finito un boccone. «Sparecchiavo, spazzavo, preparavo i tavoli, mi rendevo utile, sentivo di doverlo fare, dai dodici anni in poi», ricorda Chicco, il primogenito. Tre ragazzi e due ragazze.
Francesco è il secondogenito, cura eventi, cantina e personale. Non senza qualche ostacolo alto da superare: «Papà mi ha dato una direzione. Mi sono ribellato, ho sofferto ma poi ho capito e mi ha permesso di fare la vita che sognavo».
Quindi Barbara, per lei la pasticceria in Bergamo Alta e il bistrot all’aeroporto di Orio la Serio. E’ una Cerea, ma in maniera diversa: «Sono una Cerea fuori dal coro, fiera di esserlo. Il mio cognome è un regalo, ma la vita, rispetto a quanto accaduto tra i miei fratelli, mi ha portato a un rapporto interpersonale meno simbiotico, meno inclusivo».
Tra lei e
Rossella,
Roberto detto
Bobo, l’altro chef: «Se penso a quando eravamo piccoli, ricordo solo il ristorante. A casa non salivamo mai, tutto il nostro mondo era lì. Un pulmino ogni mattina ci portava nelle rispettive scuole e poi veniva a riprenderci». Ha detto
Rossella: «La nostra forza è la presenza, non sappiamo stare troppo tempo lontani».
Ed eccoli ancora tutti lì, riuniti ieri sera in un palazzo storico di Bergamo per presentare un libro intenso e autentico, che si fa leggere e rileggere per cogliere ogni passo come nel capitolo dedicato a Bobo. E’ lì che ho trovato uno splendido ritratto del patriarca Vittorio cuoco: «La sua cucina era grandiosa perché era semplice, niente di costruito, di troppo articolato. La semplicità può essere banale o straordinaria. La cucina di papà era straordinaria». Il suo piatto di famiglia e amore? Il minestrone.