Occorre che noi ci si abitui alla parola rubitt perché, è vero, in Spagna ci sono le tapas (pintxos nei Paesi Baschi) ma tracce di piccoli piatti di grande cucina si trovano per tutto l’arco dei 150 anni della storia d’Italia, se non prima. Solo che, al solito, non siamo mai stati capaci di edificare un tetto semantico comune sotto cui far convivere arancini e lampredotti, polpette e cicheti.
Rubitt è un’espressione dialettale settentrionale che agita da parecchio i sonni dei ragazzi del Ratanà (vedi anche la lavagna al bancone di via De Castilia, foto sotto). La scovò il sommelier Danilo Ingannamorte tra le pieghe di un testo della Scapigliatura, quei simpatici pazzoidi che negli anni Sessanta dell’Ottocento, proprio all’alba del nostro Paese, scossero la tradizione post-1848 scatenando il «pandemonio del secolo» (secondo l’auto-definizione di Cletto Arrighi). «Rubitt», racconta Ingannamorte, «è la traduzione di 'robetta'; ma tradotto in milanese il suffisso all'apparenza peggiorativo diventa vezzeggiativo, indice di qualcosa di carino. E infatti la parola designava piccole cose di pregio, dei gioiellini». Come quelli che impiatteranno i ragazzi schierati nella foto sopra nella maratona del 10 giugno a Milano, giornata di “Grande cucina piccoli piatti, un viaggio di 10 ore nel segno del Rubitt”, cioè dalle 12 alle 22 al Dopolavoro dell’Hangar Bicocca (tutte le informazioni pratiche le trovate qui).

La lavagna al bancone del Ratanà di Milano, tana dei rubitt
Ieri via De Castillia ha ospitato il primo
food-brain storming tra i protagonisti della giornata: «Quanti piatti facciamo a testa?», «Come ci comportiamo col servizio?», «Come dare coerenza all’intero percorso tra tutti?». Domande che hanno partorito risposte di cui vi renderemo conto presto. Intanto l’idea di fondo è precisa: ogni ristorante deve comunicare col suo
rubitt la propria anima. Che poi è la cucina di tradizione del
Ratanà, il burger bar dei ragazzi del
Mercato, la fusion di
Finger’s Garden, l’orto con cucina dell’
Erba Brusca, il rubitt dell’insegna ospitante del
Dopolavoro, le note dolci di
Luca De Santi. E mentre si mettono a punto tutti i dettagli, logistici e di cesello dei vari rubitt, ecco una prima idea, ancora in forma di bozza, del menu che troveremo, autore per autore.
Cesare Battisti, Ratanà
Tartare di vitello della Macelleria Annunciata di Milano con uova, bottarga di trota e topinambur croccante;
Riso integrale, erbe spontanee, zola di 180 giorni.
Alice Delcourt, Erba Brusca
Tombarello con erbe dell’orto e salsa verde;
Focaccia della casa farcita con gorgonzola e caramello.
Paolo Casanova, Dopolavoro
Salmerino carpacciato su spinaci e spuma di zabaione;
Mare sotteraneo (vaso di fiori con base cous cous).
Roberto Okabe, Finger’s Garden
Selezione di maki
Ravioli gyoza di pollo (bolliti e grigliati).
Beniamino Nespor ed Eugenio Roncoroni, Al Mercato
Panino con lampredotto scomposto e salsa verde;
Bánh mì, sorta di panino vietnamita con bavetta di manzo, maionese piccante, cipolla in agrodolce, basilico coriandolo e menta;
Lingua in due modi: carpaccio cotto sotto e sfilacci di lingua cotta croccante sopra, con rapanelli canditi.
Luca De Santi, pasticciere
Dolce alla carota con cake di carota e gelato alla carota;
Biscotto bretone croccante con albicocca marinata al lime e cremoso allo yogurt;
Brownie morbido, cremoso di cioccolato al latte e biscotto nocciola e sale.