A fine settimana, letto di tutto, credo che il commento più giusto, una sintesi perfetta di quello che sono i 50 Best e di quello che vi ruota attorno, l’abbia scritto Paologoloso nella Gazzetta Gastronomica: “La 50 Best: Capolavoro di comunicazione e marketing! Avete mai letto la brochure ufficiale di Copenaghen? Recita ‘abbiamo il miglior ristorante del mondo (Noma) e il miglior cuoco del mondo (chef di Geranium vincitore del Bocuse d’or)’.
A dimostrazione che nel mondo c’e chi crede che per il turismo di una nazione o di una citta’ la gastronomia sia fondamentale e investe quindi grosse cifre in questo settore. Proprio come i nostri illuminati governanti”.
Esatto esattissimo, tanti hanno capito che questa è un’occasione per farsi vedere e farsi pubblicità. Non è il servizio militare obbligatorio, non è una vaccinazione prima di risalire le acque amazzoniche e nemmeno l’esame di maturità. C’è una rivista che organizza, un pugno di sponsor che sostengono l’iniziativa e ci sono diverse decine di cuochi che rispondono all’appello quando vengono resi noti i risultati di una votazione che coinvolge quasi 900 giurati. Più i media e le agenzie di pr, più una minoranza di scontenti soprattutto perché non hanno vinto o non hanno vinto gli chef prediletti. Il tutto con milioni di persone che si divertono, commentano, fischiano e poi amici come prima, insomma giocano come quando al bar si inizia a discutere se è più grande Maradona o Pelè e uno poi ricorda che Gianni Brera preferiva loro Di Stefano.
E chi crede nella ristorazione come traino per il turismo, come fiore all’occhiello sfrutta i 50 Best esattamente come i voti di una guida o la lezione in una università o a un congresso e così via. Il tutto vivendo con la testa nel presente e non nel mondo dei ricordi, cosa che noi italiani sappiamo fare benissimo. Ci crediamo i primi per diritto divino e nei 50 Best 2012 avanza l’Asia e crescono le Americhe, invece di domandarci perché mai (non è che lì e là ci sono più soldi e maggiori investimenti?), ci offendiamo. Premesso che Pascal Barbot nemmeno ha uno straccio di sito e ciò nonostante ha tre stelle Michelin ed è nei 50 Best, se apri un sito o lo fai fresco e vivo o è meglio lasciar perdere. Invece pochi nostri ristoratori hanno capito che come si acquistano materie prime di giornata per la cucina, così per internet. Avete mai aperto il sito del sommo Pescatore della famiglia Santini a Canneto sull’Oglio? Ed è già uno che riporta una parte delle proposte della cucina e un sistema di prenotazione online. C’è facilmente qualcosa di più antico e praticamente di inutile ma stiamo parlando di insegne ai vertici planetari, non di un bacaro. Perché non attrezzarsi adeguatamente? Il sito è un biglietto da visita, anche più efficace del cartoncino che ci accompagna da secoli. Proviamo a pensare a un golosone straniero che a un certo punto decide di fare una esperienza spaziale e inizia a cercare conferma in rete a quanto letto su questo o quel locale. Ecco, è tutto qui.
Poi il sistema che in Italia latita. Ha detto Massimo Bottura: “Il problema è che in Italia si fatica a capire quanto sia forte il gruppo di cuochi che si è formato negli ultimi anni. Certo che tutti noi siamo amareggiati, tutti abbiamo avuto meno quest’anno ma io, per natura, vedo sempre il bicchiere mezzo pieno e guardo già al futuro e vedo che c’è da lavorare in maniera ancora maggiore. L’Italia ha le potenzialità per fare grande turismo a 360° gradi, attirando gli stranieri con una serie incredibile di idee e di proposte, una molteplicità che gli altri non hanno, a patto di usarla”.
Ha sottolineato Paolo Lopriore: “Visto cosa ha fatto Redzepi? Ha mando il suo plongeur, il lavapiatti, a ritirare il premio dopo che due anni fa gli inglesi gli negarono il visto perché extracomunitario. Questo è un colpo di genio, altissima scuola francese”.
E poi tutti i grandi chef seguiti dai loro media entusiasti e partecipativi, anche critici per qualche risultato inferiore alle attese, con i francesi divisi perché hanno brillato per quantità e non qualità. Anche se suona come se i calciatori brasiliani latitassero in una graduatoria dei World’s 50 Best Football Players, qualcosa vorrà dire se tanti appassionati, indipendentemente dal concorso organizzato a Londra, preferiscono altre mete e altri chefs. Non credo che a San Paolo ritengano Alex Atala inferiore a un cardinale francese e i danesi René Redzepi o gli spagnoli Joan Roca o Adrià. Invece, sotto sotto, tanti tra noi italiani sì. Siamo ancora qui che vediamo l’erba altrui verde smagliante e la nostra chissà. E i vari Bottura, Cracco e Scabin, in marcia verso il mezzo secolo, devono spremersi anche per convincere molti che sono cuochi a tutto tondo. E i treni passano e a lamentarsi perché alla guida ci sono catalani e danesi, asiatici e americani non ci porta nulla di positivo e di concreto. Noi rosichiamo, ci lamentiamo, litighiamo e gli altri godono delle nostri divisioni e dei nostri provincialismi. Tutto questo quando in Italia non si è mai mangiato così genialmente e naturalmente bene come ora. Il massimo dell’autolesionismo.
3. Fine
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