È tutta colpa (o quasi) di Paul Bocuse. “Negli anni Cinquanta i più grandi ristoranti erano rappresentati dai personaggi di sala, figure straordinarie che valorizzavano la tradizione italiana. I cuochi stavano in cucina, mica uscivano. Era una professione più dura di oggi, tra orari impossibili e temperature massacranti. Poi è arrivato Bocuse e ha detto che bisognava dare visibilità al lavoro dei cuochi, che il piatto andava guarnito in cucina e che la sala doveva occuparsi solo del servizio. E così lo chef ha preso il palcoscenico fino a debordare. È diventato una sorta di tuttologo, gli si chiede qualsiasi cosa, quando invece dovrebbe rispettare i limiti del proprio ruolo e di quello degli altri. Come in ogni azienda”.

Antonio Santini con i figli Giovanni e Alberto
Antonio Santini, patron e maestro di cerimonie della storica insegna tre stelle Michelin
Dal Pescatore, parla con affetto e ironia del maestro della
nouvelle cuisine e del successo mediatico degli chef. Lui che la Francia la conosce benissimo, lui che nel 1982 fondò l’Associazione "Le Soste" con
Gualtiero Marchesi, lui che divide vita e professione a Canneto sull'Oglio con la moglie
Nadia, miglior cuoca al mondo a detta degli stessi transalpini (nel 2000 al
Grand Prix dell’
Academie Internationale de Gastronomie) e con i figli,
Giovanni da diversi anni al fianco della madre,
Alberto con lui in sala.
Domenica 10, sul palco di Identità di Sala, Santini avrà il compito di chiudere la giornata con un’introduzione storica su mezzo secolo di ristorazione italiana e con un ragionamento più attuale sulla formazione del personale, declinando il tema di quest’anno: il rispetto. “Per me vuol dire riconoscere i ruoli – spiega - e rispettare, appunto, le competenze degli altri, come in una squadra. Michel Bras era solito dire che la cucina quando è buona vale il 50% ma quando è cattiva vale il 100% dell’esperienza. Da sola non è mai sufficiente se l’ambiente non è idoneo e il personale non è adeguato. Ecco perché è fondamentale investire nella formazione e valorizzare i giovani della sala. Spesso sono proprio loro a determinare il successo di un ristorante”. Dal Pescatore, nel corso degli anni, ha formato molti ragazzi. Alcuni di loro, partiti da commis, oggi hanno aperto locali in giro per il mondo e sono stati riconosciuti i numeri uno a livello internazionale. “Per noi è un grande orgoglio. Vuol dire che siamo un’ottima scuola e che, nonostante la struttura familiare, per i nostri collaboratori c’è lo spazio per emergere”.

Antonio Santini il mestiere l’ha imparato soprattutto in viaggio (di nozze), insieme a Nadia, dopo le scuole alberghiere e un pezzo di università. Seduti, da clienti, alle più grandi tavole di Francia. Per osservare, conoscere, capire come girava una sala, quale fosse l’atteggiamento del servizio: “Da
Georges Blanc ho ricevuto la lezione più grande. Il suo ristorante di Vonnas è la dimostrazione che si può lavorare con rigore ma allo stesso tempo con leggerezza. Il cameriere non deve rubare la scena e diventare protagonista dell’esperienza. Il segreto è costruire il ristorante a propria immagine e somiglianza, con tutto quello che uno vorrebbe trovare da cliente. Chi viene da noi non deve mai sentirsi oberato, mai un corpo estraneo, puntiamo sulla sobrietà, cerchiamo di calibrarci sul tempo a disposizione di ogni ospite e di adattarci alle sue esigenze”.
Il cliente, insomma, ha (quasi) sempre ragione quando varca la soglia del Pescatore. Ma non parlate a Santini di chi vive una cena con la macchina fotografica prima ancora che con la forchetta. “Non va bene. Gli ospiti vicini non devono sentirsi sulla scena di un film. Frequentare ristoranti è una delle cose più affascinanti, ma bisogna condividerla con chi è seduto a tavola”.