27-08-2019

Piovono mandorle, il giallo di Roberta Corradin

Già food writer per tante testate, poi ristoratrice per amore in Sicilia, la milanese adesso abbraccia un nuovo genere

Roberta Corradin nel ritratto di Francesca Moschen

Roberta Corradin nel ritratto di Francesca Moscheni

Caro Marchi,
ne è passata di carta sotto le rotative, da quando nel 1995 tu pubblicasti una splendida recensione del mio primo libro, Ho fatto un pan pepato. All'epoca mi aspettavo che i critici letterari avrebbero detto “come scrive bene questa ragazza”. Invece non mi si filarono di pezza, come si dice a Roma; in compenso tu in primis e altri a seguire mostraste di apprezzare il mio modo di scrivere di cucina.

Volevo diventare una scrittrice, sono diventata una food writer. Mica male, considerando che in vent'anni e passa tra la pagina Affari di gola dove tu mi chiamasti a scrivere sul Giornale, la rubrica di cucina su D La Repubblica delle donne, le recensioni di ristoranti per riviste di viaggi tra cui Gulliver, Dove, I viaggi del Sole Ventiquattr'ore, Food Arts e Saveur, qualche libro pubblicato in tutto il mondo come Taste and Tradition e l'edizione inglese di Nonna Genia, ho avuto la fortuna di assaggiare alcuni tra i cibi più deliziosi del pianeta.

Poi sono sparita. Oggi ti spiego perché. Nel 2010 ho realizzato che nel 2014 avrei compiuto cinquant'anni, e mi sono fatta in anticipo un regalo: ho lasciato le collaborazioni giornalistiche e sono tornata a scrivere. Scrivere libri, che poi è quello che sognavo di fare da grande, quand'ero bambina. Mi sono ritirata dalle scene senza avvisi ufficiali: lo sai com'è l'understatement piemontese, pensavo francamente che non interessasse a nessuno, invece ogni tanto nel mondo della gastronomia incontro qualcuno che si è risentito, tipo Davide Scabin, chef torinese che mi ha fatta ridere incontrandomi a Milano: «At ses propri na merda, te ne sei andata senza salutare, dovevo saperlo da altri che adesso hai un ristorante».

Già. Un ristorante. L'altro mio sogno, oltre a quello di scrivere, maturato durante tutta la mia esperienza di food writer, era di avere un giorno un ristorante. Volevo aprirlo a Samoa a sessant'anni, la vita me lo ha fatto trovare già aperto a Donnalucata, in anticipo di dodici anni sul calendario. Nel 2011, sempre alla chetichella, zero invitati, giusto i testimoni, ho sposato Antonio Cicero, che tre

anni prima aveva trasformato la vecchia casa della nonna a Donnalucata in un ristorante. Gli aveva dato un nome che a me non piaceva: Il Consiglio di Sicilia. Troppo lungo, troppo altisonante, troppo sciasciano, col richiamo al romanzo Il Consiglio d'Egitto. Oggi, Il Consiglio di Sicilia è il nostro ristorante: amatissimo, da noi e di conseguenza dai nostri clienti, che spesso diventano amici.

È stato il caso di Velasco Vitali, pittore. Velasco è venuto a cena una sera di agosto del 2012, sul tardi. Ha ordinato crudo di pesce, linguine con ricci, trancio di tonno, il nostro cannolo che si è meritato una nomination tra i dieci migliori in Sicilia e un titolone sul Wall Street Journal, ed è rimasto a indugiare in chiacchiere con gli amici sul nostro gazebo. A fine serata noi dello staff avevamo in programma di festeggiare una stagista dell'Alma che ritornava a casa negli Stati Uniti; i clienti non se ne andavano, e li abbiamo invitati a unirsi a noi nei festeggiamenti. È finita a tarallucci e vino, nella fattispecie a salame chiaramontano e Nero d'Avola.

Perché ti racconto tutto questo? Perché la prendo così lunga? Perché la vita è un giallo. Ha i suoi tempi, prima di dipanarti la storia nella sua nuda verità.

Qualche anno fa, sapessi quanto ne sono felice, i diritti di Ho fatto un pan pepato sono tornati a me. Ho voluto riportare il libro ad essere un oggetto simile a quello che prima di Gutenberg il copista consegnava al lettore. Sono ventidue racconti, e ventidue anni dopo la prima pubblicazione, ne ho ristampata una tiratura limitata di 222 copie, che si trovano solo qui, o solo lì dal tuo punto di vista, nel mio ristorante. Velasco ha realizzato tre disegni per me e io mi sono detta perché sceglierne uno soltanto?

All'epoca della prima pubblicazione, volevo che il libro si intitolasse Ero così incazzata che ho fatto un pan pepato. L'editore però aveva appena pubblicato Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano e non voleva apparire ripetitivo. Lui insisteva per Sodomizzare le mele con le prugne. Io non volevo. A tutti e due piaceva Contro l'egemonia del prezzemolo e dell'aglio ma sembrava un'orazione di Isocrate e c'era il serio rischio che se lo comprassero solo tre o quattro professori di greco. Per questa ragione, tra i tira e molla, il mio primo libro uscì con una brutta copertina e un titolo monco.

Grazie a Velasco, la riedizione ha tre stupende copertine come puoi vedere dalle foto, e tre titoli in perfetta scuola di pensiero pirandelliano: il lettore sceglie da sé il titolo e il disegno di copertina che preferisce, all'interno l'opera è sempre la stessa.

Tengo duro, e quando i librai me lo chiedono, inclusi gli amici librai, dico no. Queste duecentoventidue copie vanno via con persone che sono state a pranzo o a cena al Consiglio di Sicilia, hanno parlato con me e con Antonio, hanno indugiato scegliendo quale titolo, quale copertina, sotto i miei occhi curiosi.

Naturalmente, ne ho tratto una lezione. Qual è dei tre il titolo più gettonato? Quello che voleva l'editore: Sodomizzare le mele con le prugne. Gli editori fanno i libri per venderli, noi autori dovremmo ascoltarli.

Ma è bello anche prendersi dei rischi. E naturalmente è quello che ho fatto con il mio nuovo libro che sta per uscire. È un giallo. In libreria dal 10 settembre. L'ho ambientato a Scicli, la città che da quasi dieci anni continua a stordirmi con quotidiane overdosi di bellezza, e al Consiglio di Sicilia, dove spesso vengono a pranzo e a cena i miei personaggi.

Il titolo? Sono testarda, Marchi. Imparo, ma mi piace rischiare. Non è quello che proponeva l'editore ma quello con cui l'ho concepito io, dal primo giorno: Piovono mandorle.

Adesso, come diceva quel tale, una domanda sorge spontanea. Se quando ho pubblicato il primo libro di fiction sono diventata una food writer, ora che pubblico il primo giallo, cosa accadrà? Mi chiameranno i servizi segreti?
Intanto leggilo, leggètelo tutti, ché magari vi viene un'idea. Io posso solo dirvi che Piovono mandorle è un giallo perché la vita lo è. Solo che non ci avevo mai pensato prima.

Grazie di avermi ospitata, buone letture
Roberta Corradin


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a cura di

Roberta Corradin

ha scritto di cucina e ristorazione per svariate testate giornalistiche italiane e statunitensi. Il suo primo libro, Ho fatto un pan pepato, pubblicato nel 1995, le ha aperto le porte del food writing. Ha pubblicato tra gli altri Le cuoche che volevo diventare (Einaudi 2008), La Repubblica del maiale (Chiarelettere 2014), e insieme a Paola Rancati Tradizione Gusto Passione, uscito anche in inglese con il titolo Taste and Tradition. Per i suoi 50 anni si è fatta il regalo di lasciare il giornalismo, che la annoiava. Insieme al marito Antonio Cicero gestisce il ristorante Il Consiglio di Sicilia, a Donnalucata

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