11-12-2022

Coquus, il ricettario eretico che attraversa 500 anni di cucina italiana

Lo studioso Beniamino Vignola ha scritto per Giunti un'antologia ragionata di 1.200 ricette di epoche diversissime. Il plauso dello storico Massimo Montanari: «C'è un linguaggio culinario che da tanti secoli accomuna gli italiani»

Particolare di

Particolare di "Coquus. Antologia Ragionata di 500 Anni di Cucina Italiana", a cura di Beniamino Vignola (Giunti editore, 39 euro, 704 pagine, acquista online). Foto di Silvia Virgillo

Un libro di 1.204 ricette di cucina italiana, dai brodi di carne alla zuppa d'uva. Preparazioni firmate (e adattate) da cuochi e gastronomi illustri, dal Medioevo all'epoca contemporanea: da Maestro Martino a Bartolomeo Sacchi detto il Plàtina, da Cristoforo di Messisbugo al monumentale Bartolomeo Scappi, Antonio Nebbia, Vincenzo Corrado, Giovanni Vialardi, Francesco Leonardi, Ippolito Cavalcanti, Pellegrino Artusi, Emma Vanzetti, Giuseppe Ciocca... Un lavoro enorme curato da Beniamino Vignola, ex editore specializzato in informatica che ha definito un sistema particolare e strutturato di analisi dei testi antichi. Un "libro affascinante ed eretico", l'ha definito lo storico dell'alimentazione Massimo Montanari. Riproponiamo di seguito la sua prefazione del libro perché ne riassume perfettamente il senso. (G.Z.)

Per uno storico (sto parlando di me) questo è un libro spiazzante, disorientante. È vero che contiene ricette storiche, scelte da testi che coprono un arco di cinque secoli, dal Rinascimento a oggi. Ma il criterio con cui esse sono raccolte e assemblate in realtà prescinde da ogni collocazione storica, poiché sono sistemate tutte assieme, suddivise per generi gastronomici (brodi e salse, zuppe e minestre, pasta e polente, carne e pesce, latticini e verdure..). In questo modo la storia sembra scomparire e tutto si mescola in modo trasversale, a comporre una sorta di ricettario virtuale della cucina italiana nel tempo. Mettendo insieme testi di epoche diverse, di aree diverse, di diversa appartenenza sociale e culturale, di diversa qualità tecnica ed espressiva.

Se Bartolomeo Scappi giustamente fa la parte del leone, perché il suo monumentale trattato di cucina non è solo l'apice della cultura gastronomica rinascimentale, ma il fondamento della cucina italiana - e forse non solo - così come si è sviluppata nei secoli successivi, accanto a lui compaiono autori di diverso peso e di diversa importanza, accomunati solo dal fatto di avere affidato allo scritto e tradotto in parole, cioè in racconto, un'esperienza come quella della cucina, che si fa anzitutto sul campo, con la pratica e con le idee che quella pratica ispirano.

La contestualizzazione delle ricette nell'ambito storico e culturale in cui nacquero passa in secondo piano. In secondo piano passa anche il rispetto formale dei testi, giacché all'autore di questo libro interessa la comprensibilità piena della ricetta, non per fini di conoscenza filologica ma per un suo uso concreto in cucina. Per lo stesso motivo sono escluse - oltre a tutto ciò che non è cucina in senso stretto - le ricette che prevedono ingredienti fuori uso, o incompatibili con il contesto materiale e mentale in cui ci muoviamo oggi.

La copertina nella foto di Silvia Virgillo

La copertina nella foto di Silvia Virgillo

Questo libro, voglio dire, è una vera provocazione, perché implicitamente suggerisce l'idea di una cucina italiana stratificata nei secoli ma dotata di un'impronta sempre e decisamente riconoscibile, dove la variabilità dei gusti (che sono cambiati tantissimo nel corso dei secoli) e la diversificazione geografica delle ricette (spesso riferite a tradizioni locali) non escludono convergenze di fondo, una complicità culturale di generi, di procedure, di strutture gastronomiche che ci fanno sembrare molto vicine e familiari le cucine di tempi lontani. Vicine e familiari, anche quando lontane e diverse.

L'operazione sul piano storico è assai rischiosa, ma un senso ce l'ha. Io anzi credo che per la cucina italiana si possa spendere un aggettivo, "nazionale", che molti esitano a usare - quando addirittura non si rifiutano di chiamarla "italiana". Perché quella italiana è, certamente, la cucina delle diversità - ma sono diversità che si parlano e ammiccano, citandosi e rimandandosi l'un l’altra. Diversità che vanno a costruire, nel tempo, un patrimonio collettivo in cui tutti in qualche modo si riconoscono. E dico "tutti" (se no l'aggettivo "nazionale" perderebbe valore) perché proprio la diversificazione locale ne costituisce l'elemento unificante.

È questo il paradosso dell'identità italiana, fondata non sull'omologazione ma sulla circolazione delle diversità, che, interagendo, si moltiplicano. Per questo penso che la cucina italiana non si possa pensare come una semplice somma di realtà locali: è di una moltiplicazione che stiamo parlando. Quanto al processo di costruzione di questo patrimonio culturale, l'idea che solo pochi privilegiati vi abbiano preso parte è contraddetta dagli stessi testi su cui questo libro si fonda. Essi mostrano che la cultura popolare, contadina e cittadina, da quel processo non è mai stata veramente assente: al contrario, ne è stata elemento fondante.

Bartolomeo Scappi (1500-1577), pilastro delle ricette di Coquus

Bartolomeo Scappi (1500-1577), pilastro delle ricette di Coquus

La cucina dei grandi cuochi - lo Scappi e il Messisbugo, il Corrado e il Leonardi, e via discendendo fino a oggi - non ha mai avuto un carattere autoreferenziale ma ha sempre guardato a ciò che faceva la gente («il comune» avrebbe detto Artusi) nelle strade, nei mercati, nelle case di città e campagne. Ho l'impressione che questo sia un carattere fortemente tipico (ancorché non esclusivo) della cucina italiana, ed è anche per questo, soprattutto per questo che ritengo si possa definire "nazionale".

A prescindere da ogni aspetto istituzionale, perché gli italiani - intesi in senso culturale: una comunità portatrice di valori e pratiche condivise - esistono da ben prima che l'Italia assuma una forma anche politica. Tutto ciò è stato e, immagino, continuerà a essere oggetto di accese discussioni. Io confesso la mia simpatia per questo libro eretico, che mette la storia all'angolo e ricostruisce un linguaggio culinario che, pur cambiando di continuo, da tanti secoli accomuna gli italiani.


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Massimo Montanari

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Massimo Montanari

bolognese di Imola, classe 1949, è docente di Storia medievale all’Università di Bologna, dove insegna anche Storia dell’alimentazione e dirige il Master europeo “Storia e cultura dell’alimentazione”. Pioniere della materia, stimato in tutto il mondo, i suoi lavori hanno avuto e hanno risonanza internazionale e sono tradotti in molte lingue

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