Fin da bambino mi sono ritrovato a respirare l’aria della ristorazione. Appartengo a una storica famiglia di pizzaioli da quattro generazioni, ho vissuto la mia infanzia nella pizzeria paterna circondato dai 21 zii, anche loro pizzaioli. La mia famiglia fin dalla nascita mi ha insegnato a considerare il lavoro come parte importante della mia vita, e a spendersi per questo. I mie nonni, Luigi Sorbillo e Carolina Esposito, erano anch’essi pizzaioli: il primo si occupava della pizza al forno, la seconda di quella fritta, con lo stesso tipo di impasto. Molti pensano che l’impasto delle due pizze sia diverso, invece cambia solo il metodo di cottura.

Gino Sorbillo, a destra, col fratello Antonio
In questa grande famiglia di 21 pizzaioli una figura rilevante è stata quella di zia
Esterina, la prima dei 21 figli, che ha fatto da madre ai fratelli e da nonna e zia a noi nipoti. Era una donna piccolina, che non superava forse il metro e cinquanta; ma mi ha insegnato la tenacia, la testardaggine, la forza di lavorare ogni giorno instancabilmente. Anche da anziana, nonostante avesse sempre meno energia, ha dimostrato e mi ha trasmesso, fino all’ultimo giorno, la voglia e l’entusiasmo per questo lavoro divenuto, addirittura, quasi una missione.
Le miei prime mansioni erano semplici: impanavo le crocchette, schiacciavo i pomodori a mano e le palline di pasta insieme a mio padre e a qualche zio, pulivo il basilico o la rucola, tagliavo i funghi con il coltello a seghetto e anche i pomodorini. Successivamente sono passato a servire ai tavoli; questa esperienza mi è stata utile per capire meglio le richieste, la mentalità e le esigenze del cliente, soprattutto quando sono passato dietro al banco delle pizze. Prima di raggiungere questo posto, però, ho lavorato presso il forno per imparare i metodi di cottura: non si può essere bravi pizzaioli se non si è ottimi fornai. Capire bene come cuocere le pizze ti fa comprendere anche meglio le problematiche del banco: come deve essere l’impasto, come deve essere condita la pizza e con quale velocità.

Questo insieme di tasselli ha contribuito a farmi fare il salto di qualità. La pizza napoletana tradizionale negli anni '90 sembrava essere un prodotto immodificabile. Io, forte delle conoscenze apprese, ho cercato di apportare il mio contributo artistico, innovativo e contemporaneo, raccontando cosa essa fosse per me e cosa significasse essere pizzaiolo a Napoli partendo da via Tribunali: strada del centro storico famosa nel mondo per le pizzerie situate lungo il percorso. Da questo posto anche pieno di contraddizioni, con un lavoro popolare che mi ha formato tantissimo, ho cercato di proporre una pizza come la intendevo io e raccontarla negli anni col mio stile, il mio metodo.
Alla fine degli anni 90, inizi del 2000, molti giornali, molte guide d’Italia, la guida verde Michelin, Marie Claire edizione russa e altre testate che non parlavano solo di cibo, mi presentavano come un personaggio napoletano che amava la città e che attraverso il suo prodotto cercava di dare segnali positivi ai giovani di un quartiere difficile dove anche lui era nato e cresciuto. Ma non era stato facile, all’inizio venivo visto come un marziano. Molte persone già nel ’95, quando ho iniziato, a 25 anni, non capivano cosa avevo in mente, molti mi vedevano come un rivoluzionario. Però venivo apprezzato dai “vecchi” del mestiere, persone che ho sempre frequentato e che avevano 20 anni più di me: penso mi considerassero perché vedevano in me qualcuno che, pur restando con i piedi a terra e ancorato alla tradizione, riusciva a portare la figura del pizzaiolo e della pizza napoletana più lontano.

Su Gino Sorbillo è appena uscito un bel testo: Sorbillo. La pizza di Napoli, sottotitolo "Il personaggio, la famiglia e la trdizione raccontati da Angelo Cerulo", l'autore è Francesco Aiello, Edizioni dell'Ippogrifo (35 euro, 144 p.)
Già dal 2000 avevo la divisa, come segno di distinzione e di stile, mentre altri usavano ancora le magliette della
Fruit of the Loom che costavano magari 5mila lire. Andavo alla ricerca di prodotti buoni: il fior di latte di Agerola, il pomodoro di Gragnano... Ciò mi ha consentito di portare avanti la politica familiare, ossia di fare cose di qualità in grosse quantità, ma a prezzi onesti. Quello che mi interessava non era far sapere da dove provenissi e chi parlasse di me, ma consentire agli altri di capire che ero l’immagine di ciò che avevano nel piatto.
Ho scelto di lavorare così tutti i giorni, facendo una pizza per tutti: l’operaio, il personaggio di Hollywood, il disoccupato, il milionario. Di fronte a una pizza, per me, sono tutti uguali. Ci ho anche messo un briciolo di coraggio: uso la mozzarella di Libera Terra, prodotta dal latte delle mandrie di bufale che pascolano su terreni confiscati alla camorra; da un anno e mezzo prediligo come ingrediente primario una farina biologica che nessuno usa per una pizza napoletana, poi un pomodoro biologico e l'olio bio di Terre Francescane...
Nonostante tutto cerco sempre di trovare, ogni giorno, spunti nuovi confrontandomi con le aziende per dimostrare che si può sempre migliorare e che la pizza napoletana non ha niente di meno rispetto ad altre specialità. Sono comunicativo perché nasco dal niente e con il mio semplice modo di fare, forse, riesco ad arrivare più vicino al cuore delle persone.