«E’ bravo Alberto Sparacino del Cum Quibus di San Gimignano: ancora poco conosciuto, si farà valere nei prossimi anni», ci aveva raccontato lo scorso luglio un maestro come Gaetano Trovato, spiegandoci i suoi progetti futuri (leggi: Papà Arnolfo cambia casa dopo 22 anni), ma anche passando i rassegna alcuni dei suoi tanti allievi, quelli migliori. Sparacino tra questi.
E allora noi siamo andati a trovarlo, immergendoci intanto nel pieno centro storico di San Gimignano, in una delle tante traverse del corso principale. Il locale è ospitato in un palazzo del 1200, basta scendere pochi scalini per trovarsi in un’atmosfera medievaleggiante fatta da archi e muri in pietra viva, ma anche tante luci colorate e candele. Sembrerebbe la tipica taverna toscana in veste più fastosa, e tale in effetti è stata a lungo, fin da quando i genitori di patron Lorenzo Di Paolantonio decisero di aprire il locale, nel febbraio 2005. Spiega quest’ultimo: «Io allora stavo finendo le scuole superiori, i miei mi chiesero di dare loro una mano per l’estate. Entrai al Cum Quibus». Non vi è più uscito, prima occupandosi anche della cucina, poi scegliendo la via della sala e della cantina: «Nel 2004, avevo 28 anni, ho pensato fosse necessario far crescere il locale. Ho detto basta ai fornelli e mi son messo a cercare un bravo, giovane chef...».

Alberto Sparacino con patron Lorenzo Di Paolantonio
Frequentazioni comuni lo hanno portato a imbattersi in
Alberto Sparacino, poco più che coetaneo: classe 1984 da Colle Val d’Elsa, il paese dell’
Arnolfo di
Trovato, dove ha trascorso tre anni in un periodo di formazione che ha toccato anche
Daniel Boulud a Manhattan. Diploma di geometra e qualche studio in Ingegneria,
Sparacino si trovava in quel momento a guidare la cucina del
Colombaio a Casole d’Elsa, dopo quattro anni presso la
Barone Ricasoli al
Castello di Brolio. Lui ha mixato queste sue esperienze in uno stile di cucina personale e già strutturato, che ha ribaltato la precedente impostazione del
Cum Quibus. Di
Trovato, ad esempio, si riconosce l’attenzione alla pienezza del gusto e anche quel tocco francesizzante – ma in veste mediterranea - poi affinato ulteriormente da
Boulud. Però, se gli si chiede le origini per la grande attenzione che dimostra per salse e fondi, risponde: «E’ un retaggio di
Matteo. Mi diceva sempre: salse, salse!».
Il Matteo in questione di cognome fa Lorenzini, suo grande amico nonché chef del Ses.To on Arno a Firenze. Attorno al 2007 i due si conobbero all’Arnolfo, «e in quel periodo c’era anche Simone (Cipriani, ora all’Essenziale, leggi: Il gusto di essere Essenziale)». E anche un altro Matteo, Manzini, «impressionante, lavorava con due mani contemporaneamente impegnate a fare cose diverse». Non a caso ora è il sous del tristellato Azurmendi da Eneko Atxa, nei Paesi Baschi. Bella nidiata, insomma.
Tornando a noi:
Sparacino gastronomicamente parlando è figlio di questo percorso che l’ha portato a stratificare tre diversi livelli insieme. C’è tanta apertura al mondo, «mi piace viaggiare e apprendere le culture culinarie che scopro, in primis quella giapponese e asiatica in generale, affiancandole così a quella italiana. Quest’anno ho iniziato a studiare anche quella sudamericana…»; c’è l’Italia appunto, un punto di riferimento che deriva certo da
Trovato, ma anche dalla biografia del giovane chef, il babbo è siciliano di San Cataldo, provincia di Caltanissetta, la mamma sarda di Arbus, nel Medio Campidano. C’è anche tanta Toscana, pur se l’interessato tiene a precisare: «La mia è una cucina italiana, non solo toscana». Vero, eppure rinuncia difficilmente a una territorialità pur mediata, come abbiamo visto, da influenze più vaste, così da addivenire a esiti piuttosto eclettici.
I piatti, si diceva, sono pieni, complessi, a volte persino muscolosi: « La mia, di fondo, è una cucina d’istinto. Sono per il gusto, ma con equilibrio. Le preparazioni hanno picchi aromatici, ma non voglio che risultino stucchevoli». Trovano spesso quell’armonia raggiunta anche nel rapporto con patron
Di Paolantonio, «soprattutto quest’anno». Spiega: «Io qui mi diverto, sono fortunato, faccio tutto il giorno quello che mi piace».
Ultima domanda, doverosa, al patron: ma chi te l’ha fatto fare di imboccare la via di un’alta cucina complessa, in un contesto che spingerebbe semmai a proporre semplicemente panzanelle e fiorentine? Risponde: «San Gimignano ti consente sempre e comunque di lavorare bene; ma il turismo, l’afflusso costante di clientela, non dev’essere un limite o una scusa per non far meglio, bensì un’opportunità da cogliere e sfruttare. Non penso ci sia voluto coraggio a intraprendere questo lavoro con Alberto. Avevamo e abbiamo la passione necessaria, e la voglia di fare quel qualcosa in più». Nella fotogallery firmata Tanio Liotta, i piatti della nostra cena.