01-02-2023

Ci ha lasciato Roberto Perrone, prima di tutto un amico

Si è spento a 65 anni a Milano un talento capace di coniugare giornalismo, scrittura e passione per la tavola: «Quando ho assaggiato l’Uovo di seppia di Cuttaia mi si è aperto un mondo: ero felice». Dal Giornale al Corriere e al Foglio sempre con ironia

Roberto Perrone, ligure che si divideva tra Rapallo e Recco, milanese d'adozione, il prossimo 14 marzo avrebbe compiuto 66 anni. Una malattia lo ha stroncato lo scorso 29 gennaio. Negli anni Ottanta aveva idealmente fondato l'AGO, Associazione Giornalisti Obesi, e l'obesità va intesa come voglia di vita, come generosità nel non risparmiarsi. Nel 2010 sua la frase riportata nel quadro ricordo che accompagna ogni edizione di Identità Golose, in questo caso la sesta: «La buona cucina racconta la nostra vita». Lascia la moglie Emanuela e i figli Cecilia, Rachele e Giovanni.

Quando senti una persona amica, non conta tanto il tempo che consumi assieme quando la qualità del tempo stesso, quel mix di sentimenti, pensieri, viaggi, bisbocce che non si dissolve mai, come un fiume che può anche capitare che sparisca sottoterra, ma che a un certo punto torna a fluire in superfice. Ecco, quando penso a Roberto Perrone non mi viene proprio in mente che ci conoscevano da oltre quarant’anni. Mi sembra ieri quando entrò alla redazione sportiva del Giornale, a differenza di quanto accade con quelle persone che possiamo frequentare anche ogni giorno per mesi e mesi, ma siccome c’è sempre una certa dose di necessità in questo, alla fine, stringi stringi, è un rapporto tenuto assieme da un collante che, presto o tardi, si esaurisce. Con lui mai.

Roberto è stato un grande giornalista sportivo, un altrettanto bravo scrittore, infine un perfetto compagno a tavola e ovunque fosse possibile fermarsi per mangiare un boccone, piuttosto che dieci o cento. Sapeva raccontare davvero bene questa passione per il cibo, più cibo che vino, attraverso le pagine del Giornale, per il quale ogni settimana metteva sotto la lente d’ingrandimento un territorio scelto perché particolarmente vocato per la qualità. Non amava invece essere considerato un critico gastronomico a tutto tondo, penso perché sapeva di amare troppo le trattorie, le tavole abbondanti e sincere, più tradizione che innovazione, più bocconi generosi che briciole. Anche se l’amore di una vita, Emanuela, che fa Carbone di cognome,

appartiene al nobile casato gastro-creativo dei Carbone della Manuelina di Recco alias un fior di ristorante e, risalendo indietro nel tempo, arriviamo a quella Manuelina che nell’Ottocento fece conoscere ai signori di Genova la celeberrima focaccia di Recco.

Prima testata nota, l’Avvenire, lui credente sincero che lasciò a inizio anni Ottanta chiamato dal Giornale, capo servizio allo sport Fredi Caruso. Come si usava allora, quando per seguire gli eventi dovevi staccare le chiappe dalla sedia e andare sul posto, niente web, niente social, piuttosto gambe in spalle e parole, parole, parole. Nemmeno si poteva immaginare che qualche decennio dopo tutto sarebbe stato diverso e il mondo lo si sarebbe seguito attraverso tivù, computer e telefonini.

Come da consolidato costume, se veniva assunto un nuovo redattore poco più che ventenne, chi lo aveva preceduto doveva fare due cose: girargli il tabellone da riempire con le partite di calcio della domenica (non si giocava ogni giorno come ora), usando la macchina per scrivere – per la serie, il computer questo sconosciuto -, e accompagnarlo ai campi di allenamento di Inter e Milan perché conoscesse le due milanesi dal loro interno. Quando fu il momento di andare alla Pinetina di Appiano Gentile, quartier generale dei nerazzurri, successe un qualcosa che cambiò il programma d’allenamento. Così non trovammo nessuno. Panico? Per nulla. Però Roberto mi chiese, giustamente, cosa avremmo fatto. «Semplice, vista l’ora andiamo a pranzo». E pranzo fu, in pizzeria.

Sapeva ridere, anche quando magari poteva abbassare un po’ i toni. Un giorno, nel collega Alberto Costa, riconobbe un tifoso laziale, lui acceso genoano, al quale anni prima aveva strappato una bandiera biancoceleste durante una baruffa prima dell’inizio di un Genoa-Lazio a Marassi. Lo abbracciò e tempo dopo gli restituì il drappo. Calcio, nuoto e tennis i suoi sport e siccome era sinceramente bravo, tanti mondiali, Olimpiadi e tornei come Wimbledon, per il Giornale fino all’89, poi al Corriere della Sera per una quindicina di anni, infine per il Foglio, salvo riservare la gola al Giornale non più di Montanelli.

Nei social si firmava Fred Perri57, evocando un grande della racchetta, l'inglese Fred Perry, certo di sapere colpire splendidamente la pallina, la notizia. Non solo come giornalista, pure come romanziere. Cosa rara, perché al secondo è chiesta una qualità rarissima nel primo, quella di raccontare la vita prendendo a prestito dei momenti reali stravolgendoli. Ecco il personaggio Annibale Canessa ma pure la bio di Gigi Buffon o un libro all’apparenza goloso come La cucina degli amori impossibili che prende a prestito le gesta di Romeo e Giulietta, famiglie contro insomma.

Ma uno come me, che ha vissuto come lui il mondo delle redazioni del tempo che fu, adora un libro come La lunga nel quale Roberto racconta l’ordinario tran tran di un redattore prossimo alla pensione, una vita ordinaria, uguale a mille e mille altre, che una sera subisce una scossa. E un signor nessuno diventa un protagonista. La lunga l’ami o la odi. Ti obbliga a rimanere alla scrivania fin dopo la mezzanotte per controllare le notizie ed eventualmente intervenire sulla pagina.

Nel novembre 2011 Roberto, con l’ironia che gli apparteneva, raccontò per questo sito il mestiere di critico. Riporto l’ultimo periodo: «Sono anche contrario a regole più o meno scritte e alla costituzione dell’ordine dei critici. Ho molti dubbi su quello dei giornalisti. Per me, che vengo, come Paolino, dal giornalismo sportivo, è il campo che dice il tuo valore, non quante Olimpiadi o quanti Mondiali hai fatto, da atleta o da giornalista. Questi accrescono la tua esperienza, ma la cucina, come lo sport, non è solo un fatto tecnico, per me è soprattutto emozionale. E le emozioni sono sempre diverse, personali. Mi sono perso Peppino Cantarelli, ma non Massimo Bottura. Chi ha mancato Gualtiero Marchesi in Bonvesin de la Riva, ha la fortuna di avere i suoi allievi, Cracco, Berton, Oldani, a portata di viaggio. Adesso mi metto a leggere Cuttaia. Non so cosa siano le equazioni della fermentazione, però quando ho assaggiato l’Uovo di Seppia di Pino mi si è aperto un mondo. Non ero a Licata, non ero in Italia, ero ovunque. Ero felice».

Quelli come lui ci mancheranno sempre.


Primo piano

Gli appuntamenti da non perdere e tutto ciò che è attuale nel pianeta gola

a cura di

Paolo Marchi

nato a Milano nel marzo 1955, al Giornale per 31 anni dividendosi tra sport e gastronomia, è ideatore e curatore dal 2004 di Identità Golose.
blog www.paolomarchi.it
instagram instagram.com/oloapmarchi

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