Sta diventando un appuntamento fisso di Identità New York, dai contenuti sempre più interessanti grazie a relatori importanti, che riportano la loro esperienza direttamente dalla cucina. Quest’anno c’era anche Francesco Genuardi, console generale d’Italia a New York, a sottlineare anche l’interesse sempre più acceso delle istituzioni per il nostro mondo.
Il dibattito è organizzato da S.Pellegrino e titola “Talent and the mentorship, a mutual opportunity”, una valida chiave per esplorare un meccanismo cruciale della S.Pellegrino Young Chef (dal 13 al 15 ottobre si tiene la finale della seconda edizione a Milano) e del futuro stesso della ristorazione.
Attorno a Clement Vachon, International relations, events & communication manager e David Hardie, direttore S.Pellegrino Usa, erano seduti cuochi chiamati a relazionare sul rapporto maestro/allievo. Li moderava Pavia Rosati, fondatrice di Fathom Away, alla presenza di giornalisti americani che ascoltavano attenti. Abbiamo isolato le frasi più interessanti.
Carlo Cracco, Cracco, Milano: «E’ complicato fare il mentore perché è complicato fare lo chef: occorrerebbe essere sempre presenti e osservare quel che fa l’allievo ma non è sempre possibile. Il mio primo maestro era un tedesco: parlava solo nella sua lingua e io non capivo niente. Per noi, è vitale far sentire chiunque entra in cucina come parte di un team, non una presenza isolata».

Alex Stupak, Emma Bengtsson, Massimo Bottura, Paolo Marchi
Alex Stupak,
Empellon, New York: «Ho avuto la fortuna di avere grandissimi maestri:
Grant Achatz a Chicago e
Wyle Dufresne a New York. Mi hanno sempre spiegato il perché delle cose, non solo il come ed è quello che cerco di fare io oggi. Il problema è che oggi ai ragazzi interessa soprattutto quello che possono fare e guadagnare, non hanno umiltà».
Massimo Bottura,
Osteria Francescana, Modena: «Noi cuochi dobbiamo smetterla di parlare, occorre cominciare ad agire. Cerchiamo di condividere le nostre idee nel mondo, fuori dalla nicchia del ristorante.
Sharing, condividere, è tutto quello che conta. Così si scrive il futuro del nostro mestiere».
Niko Romito,
Casadonna, Castel di Sangro (Abruzzo): «In 4 anni di
Niko Romito Formazione, sono passati dai nostri banchi un centinaio di studenti. ‘Perché venite da noi?’ chiediamo sempre loro all’inizio. Quasi nessuno dà la risposta che vorremmo sentire – ‘per imparare’ - perché hanno sogni più che altro mediatici. È brutto dirlo, ma il 50% dei ragazzi che si diplomano si perdono presto per strada. La prima responsabilità del
mentor di oggi è allora quella di responsabilizzare i cuochi, mettendoli nei posti giusti. E i ragazzi vanno seguiti sempre perché il talento ha bisogno di anni per sbocciare».
Paolo Marchi,
Identità Golose: «Vorrei riportare un aneddoto della terza edizione di
Identità Milano, anno 2007. C’era la Scandinavia come nazione ospite. A un certo punto della sua lezione, al cuoco finnico venne chiesto: ‘come hai fatto a cucinare la renna in quel modo?’. ‘Non posso dirlo’, rispose, ‘è un segreto’. È esattamente l’atteggiamento che un cuoco non deve avere perché, se sei sicuro di te condividi, se sei un cuoco incerto te lo tieni per te. Forse aveva ragione
Gualtiero Marchesi: ‘Il cuoco che si tiene il segreto è quello che ha avuto una sola idea intelligente'».
Emma Bengtsson,
Aquavit, New York: «Cerco di non essere la depositaria della verità in cucina. Ci sono giovani cuochi dai quali ho imparato molto».