Milano
Adesso che si parla tanto (e molto a vanvera) di cucina molecolare e di chimica in cucina, con alcuni leoni di ieri che miagolano perché sentono che con la crisi economica il vento ha cambiato direzione senza una logica dettata dai gusti, Pietro Leemann, nato ticinese ma cresciuto milanese, chef e titolare di Joia, ristorante naturale in Milano, telefono 02.29522124, ha le carte in regola per definire i confini tra lecito e illecito, tra innovazione logica e gratuiti effetti speciali. La sua è un’insegna di «alta cucina naturale», tanto mondo verde, tra il vegetariano e il vegano, ma non solo perché il mare qua e là fa capolino. La carne invece è bandita.
Ennesima dimostrazione di naturalità sarà la cena di mercoledì prossimo, 6 maggio. Sarà una serata nel segno di un capolavoro lombardo, del Bitto. Formaggio di lungo invecchiamento, da degustazione come è stato fatto notare di recente in una conferenza all’Umanitaria e non solo da grattugiare, destino dei formaggi “secolari”. Il Bitto supera tranquillamente i cinque e sei anni di vita. Per ricordare l’inizio delle ostilità in Valtellina tra fautori della Dop comunitaria, area che furbescamente abbraccia l’intera provincia di Sondrio, un andare contro la storia, e produttori del cosiddetto Bitto storico delle valli del Bitto, i puristi hanno messo a stagionare una forma nel 1999 che oggi compie dieci anni e ha idealmente fatto da testimone a una soluzione raggiunta un paio di settimane a livello di Regione Lombardia.
Leemann proporrà mercoledì una cena basata sul Bitto di alpeggio, quello più buono e ricco, quello di personalità, dalle note ricche di sfumature come un arcobaleno dopo una tempesta. Feroce la contrapposizione tra due modi ben lontani tra loro di intendere questo gioiello, che deve la sua qualità all’alpeggio, al latte delle mucche capaci non solo di vivere in estate in alta quota ma anche semplicemente di raggiungere i pascoli in alto, cosa che le loro cugine abituate a vivere in cattività hanno perso.
Leemann proporrà un menù nel quale il bitto splende in quattro portate prima del dessert: Sfera di bitto di 12 mesi e grano saraceno con contrasto di verdure affumicate e zafferano; Ravioli di bitto con verdure grigliate, pesto di sedano verde e scorza di limone, sedano arrostito al timo; Fresco carpaccio di pomodori sardi e bitto con contrasto di levistico e cocco; Selezione di cinque stagionature di bitto con chutney di mele e lamponi, con il “pane di Natale”. Inizio della serata alle 20, prezzo fisso 80 euro. Ha spiegato lo chef: «Il bitto che lavoro io arriva dalla valle Gerla e da Val Albaredo dove ho avuto modo di apprezzare forme vecchie di vent’anni. Mercoledì ne proporrò uno di dieci grazie alla collaborazione con il professor Michele Corti, figura fondamentale per la salvaguardia dei prodotti d’alpeggio, e con quella di Paolo Ciapparelli, presidente dell’Associazione produttori Valli del Bitto, primo tra tutti Giuseppe Giovannoni, un ottimo casaro che ci farà assaggiare la sua mascarpa di capra».
Grazie a Ciapparelli, telefono 334.3325366, l’associazione, sito formaggiobitto.com, ha aperto una casera a Gerola Alta, 0342.690081, che è la sintesi di un investimento di oltre trecentomila euro. Il Bitto è così diventato un solo un simbolo della battaglia per la difesa dell’origine di un prodotto ma anche la dimostrazione che se ci si impegna si può creare un circuito virtuoso anche con prodotti di nicchia. In estrema sintesi: un chilo di Bitto del consorzio della Dop viene pagato al produttore meno di 10 j, cifra che non lo ripaga e quindi lo delude. Ciapparelli garantisce invece ai casari estremi attorno ai 18. E questo spiega perché in queste valli lateriali della Valtellina l’alpeggio è tornato in auge: perché la fatica viene ripagata. Un’altra cosa è importante: capire che la qualità ha un prezzo e che i prodotti per l’uso quotidiano in cucina seguono altri sentieri.