11-05-2020
Pechino all'inizio della riapertura (foto Washington Post)
Siamo qui a sfatare un mito. Quello del modello cinese come sistema nitoreo e cristallino per affrontare il post-coronavirus. Mentre infatti in Italia stiamo passando tra fase 1 e 2 - come direbbe Totò, fase 1 e mezzo - mentre una municipalità rivierasca rivendica il diritto di andare al mare, una regione beghina la libertà di coscienza di andare a messa, una provincia ribelle insulta il governo tanto per sport, mentre queste schermaglie avvengono regolarmente, quasi tutte le voci risuonano in un sol diapason puntando il dito a Oriente, tipo: «Guarda che la Cina s’è ripresa con la forza di un Fausto Coppi solo al comando». Ecco, premesso che il popolo cinese è stato semplicemente b r a v i s s i m o nel seguire i dettami impartiti ex domine, tutti sempre con la mascherina, alcuni con addrittura la tuta dei rescuers di Chernobyl, altri con gli occhialoni in plexiglass da saldatore, altri xtreme con lo scafandro da palombaro, ecco premesso che il singolo cinese ha risposto in maniera semplicemente s u p e r a questo, ha pur sempre corrisposto un balletto di ordinanze, richieste, leggine e cambi di comportamenti che nemmeno il mago Silvan avrebbe potuto performare meglio. Innanzitutto il Paese è una complessa articolazione amministrativa di 22 province (senza contare la 23ma, Taiwan, non amministrata, e il mantra “un paese due sistemi” che armonizza mainland e HongKong/Macao), 4 municipalità, 5 regioni autonome e 2 regioni amministrative speciali. Questo significa che, a un forte diktat centralizzato, segue sempre una cascata di implementazioni locali e leggi attuative iperlocali che lasciano una bella piazza d’armi all’interpretazione. Senza andare a scomodare i grandi sistemi del mondo questo lo abbiamo visto bene nella quotidiana banalità dell’andare per ristoranti. Il caso più divertente è quello di Samuele Rossi , general manager del gruppo Bellavita che ha un ristorante e un bar a nord, vicino a Pechino, un altro al centro, a Shanghai, e un altro cluster al sud, a Canton. «In quello di Pechino, ancora oggi, non posso fare alcuna attività all’esterno: chiuso il dehors, cessate tutte le attivita di vendita col cart gelato, bibite e pancake. Questo perché le autorità locali temono che la gente portando il cibo all’esterno è costretta a sollevare la mascherina potenzialmente infettando il prossimo. In quello di Shanghai però non ho alcuna limitazione, dentro o fuori non fa differenza. In quello al sud, invece, mi viene raccomandato il distanziamento indoor e mi si raccomanda la vendita all’esterno». Sarà forse perché un pool di ricercatori cinesi ha realizzato uno studio su un ristorante di Canton (dunque Sud) dove un asintomatico (rivelatosi poi positivo al tampone) proveniente da Wuhan e sedutosi di fronte allo split dell’aria condizionata aveva infettato le 9 persone sedute ai tavoli esattamente intorno a lui a favore di flusso d’aria, salvando tutti gli altri tavoli dell’altra metà ristorante che erano nel cono d’ombra dello split. Come dire, al Sud il Coronavirus ha muscoli da lavoro anaerobico ma una leggiadria negli spostamenti aerobicissima. Vola quasi.
Street food da passeggio al NanxiangMantou di Shanghai, specialità bun di carne stufata (foto China Daily/Asia News Network)
Pechino (foto Tingshu Wang, Reuters)
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