23-05-2017
(foto Chronicle/Craig Lee)
Esiste il gomito del tennista, ed esiste il gomito del ganbei cinese. Entrambi sono perniciosi e obbligano a uno stop delle attività, qualsiasi essa si stia facendo, con o senza racchetta in mano. Il ganbei, 干杯 in ideogrammi, è una parola cinese che significa “bere alla goccia” (gan, 干, significa”seccare”; bei, 杯, significa “bicchiere”) e non è altro che l’estensione della pratica dello shottino da discoteca a una boule financo di Romanée-Conti del ’79: slurpete... seccato in mezzo secondo.
Nei miei dieci anni di vita in Cina, di lezioni e di wine tasting in veste di sommelier e wine educator, ho visto più feriti da ganbei che da banzai. E non a caso le autorità cinesi hanno deciso di passare dal consumo domestico dal baijiu (白酒, il famigerato distillato di sorgo e granaglie tradizionale) al vino occidentale: fa meno male distruggersi con un succo d’uva a 13 gradi piuttosto che spararsi a stomaco vuoto una bocccia di spirito a 52 gradi. Dopotutto sarà anche vero che, come dice un adagio centenario, “un bicchiere di baijiu cura anche l’ulcera” ma sta di fatto che il costo sociale del distillato locale è entrato a gambe unite sul caveau dell’agenda governativa.
Ma come si approcciano al vino i cinesi?
Premesso che c’è una bella differenza di comportamento tra chi opera nel quartiere centrale di Jing An a Shanghai e coloro che si cimentano nei capoluoghi remoti dell’impero, è pur sempre vero che la vulgata è quest’ultima situazione, la mosca bianca invece è la prima. Pertanto è a questa che ci riferiamo, e in maniera semiseria andiamo a disegnare quattro situazioni in cui sempre si imbatte chi ha a che fare con il vino in Cina: 1) la cena di lavoro; 2) la cena tra amici; 3) il wine tasting; 4) il compratore di vino. Solo alla prima verrà dedicato questo primo contributo, la cena di lavoro cinese infatti è un micromondo eno-esistenziale che merita spazio e il massimo rispetto. Le altre tre situazioni invece verranno toccate prossimamente.
Etichette personalizzate per il mercato cinese
Dopo l’inizio delle danze, spiega Lapo Mazzei, della storica cantina toscana di Marchesi Mazzei «una delle domande per rompere il ghiaccio sarà 'quanto puoi bere?'». Qui infatti gli indicatori chiave della performance si misurano in decilitri. Gli stranieri rimangono sempre un po’ basiti alla richiesta, eppure ogni commensale al tavolo potrà dirti fieramente qual’è la sua best performance. Alla risposta banale «non so... cerco di bere bene e quando mi comincia a girare la testa smetto» verrai guardato con sospetto: «Questo è un laowai furbo (laowai 老外 è la parola un po’ reverenziale ma anche un po’ irriverente per definire lo straniero)».
Nel frattempo in tavola verranno serviti i piatti più strani: brodetto di unicorno, misticanza di animali da cortile, uova di dinosauro millenario, saltuariamente larve da intingere in triti del Xinzhang. «Tutto ciò che farà scalpore negli invitati è ben accetto. – conferma Vito Donatiello, cofondatore di Italian Wine & Food, un importatore di una decina di cantine tutte italiane. - «Il sapore del vino è l’ultimo dei problemi, tanto che anche il tappo è un sentore apprezzato». Anzi denota un aging raffinato, che sa di vecchia Europa.
E così la serata si dipana. Alla fine più nessuno si ricordera dei Lafite, scritto con una o due “effe”, e degli unicorni. Come in una fiaba che si rispetti. E sia chiaro, si va a casa esausti ma anche divertiti. A patto di non ripetere l’esperienza della cena di lavoro troppo spesso. Pena finire in ospedale. E magari imbattersi in un dottore che ti prescrive cinque baijiu al giorno. 1. continua
Approfondimenti golosi dalla Cina e dall'Estremo Oriente a cura del nostro inviato Claudio Grillenzoni
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Giornalista col vizietto dell'esterofilia (da buon germanista) e del cibo (da buon modenese), ora vive felice in Cina, a Shanghai, tessendo ponti tra Oriente e Occidente