«Manca un cuoco cinese di riferimento, in Italia», sottolinea Weikun Zhu, classe 1987, e nel dirlo gli brillano gli occhi, perché lui è bravo e ambizioso: anzi, è ambizioso in quanto bravo e soprattutto consapevole di esserlo. Culla da tempo l’idea di sbarcare col suo Kanton a Milano, dove avrebbe certo maggiore visibilità (e successo, pronostichiamo noi): per ora resta invece in provincia, a Capriate San Gervasio, provincia di Bergamo, mezz’ora d’auto dal capoluogo lombardo: «Standomene ancora fuori della mischia metropolitana, ho più tempo per fare ricerca».
Nella valanga di ristoranti cinesi di bassa qualità che si affastellano ormai ovunque, il
Kanton spicca due volte. Certo per l’altissima qualità della materia prima e l’abilità tecnica che lo chef dimostra; ma soprattutto perché
Zhu non si limita a proporre la tradizione cinese (o meglio, le tradizioni) come se fosse immortalata in una foto sbiadita, con risultati che sarebbero sempre un poco caricaturali, perché la tradizione è cosa viva, dinamica, e ingabbiarla in uno stilema immutabile non le rende mai giustizia; d’altra parte lo chef neanche s’allontana dalla casa madre alla ricerca di qualche esito fusion d’incerti padre e madre. No, la sua operazione è diversa, forte di un’idea di base: «A me piace innovare. Pochi cuochi cinesi lo fanno».
Passo indietro: come lo stesso Weikun ama sottolineare, nel suo perfetto italiano, «io sono nato e cresciuto in Cina. Da bambino il mio ambiente era la campagna, le risaie». Come dire: la radice, salda, è lì, e lui è figlio di quella cultura gastronomica, «torno poi spesso e ogni volta vado a studiare qualcosa di nuovo, approfondisco le varie scuole, che sia a Hong Kong o a Pechino, nel Sichuan o altrove».
E’ arrivato in Italia nel 1999 coi genitori, che hanno aperto tra le stesse mura a Capriate il loro ristorante cinese, allora chiamato
Il Giardino di Giada. Il suo
Kanton, completamente rinnovato negli interni, è invece stato inaugurato nel 2014. Lui dunque è la seconda generazione, e a questa sua stringata biografia vien logico far risalire quel giusto equilibrio che ne impernia lo stile ai fornelli: «Quando sono in Cina giro molto e apprendo le antiche ricette dei piatti, anche di strada, quelle che nella mia patria si stanno perdendo. Le faccio mie e, quando torno, le reinterpreto con modernità e occhi un po' italiani». O, in altre parole: «Riproduco con tecniche dell’oggi i gusti antichi che ho assaggiato tra i miei connazionali, ma lo faccio con una sensibilità che tiene conto del mio vissuto in Lombardia».

Weikun Zhu con la compagna Mei Ling Ren, che lo aiuta in sala
Così, alla fine di questo percorso di ricerca nel passato e verso il futuro, «propongo i piatti tradizionali dopo averli riletti con tecniche attuali e sperimentazioni personali. In cucina uso l’azoto liquido, così come il sottovuoto o la bassa temperatura, non solo il wok». Fondamentali in questo senso sono state le sue esperienze a Hong Kong e uno stage a
Le Cordon Bleu di Parigi, «ma molto ho carpito andando a mangiare in giro nei ristoranti più importanti».
Zhu maneggia così la materia con scioltezza; sa ben gestire gli aromi ed essere sufficientemente abile per destreggiarsi con disinvoltura tra le sue varie dimensioni – geografiche, temporali e culturali – che ne vivificano l’evidente talento.
Gli esiti sono notevolissimi, come si evince dalla nostra fotogallery che unisce due nostri pasti al
Kanton, uno recente, l’altro più indietro nel tempo; gli scatti sono di
Tanio Liotta. La cucina di
Zhu è indubbiamente cinese, anzi più cinese di tutte nel senso che lo chef ama proporre di volta in volta piatti e/o prodotti che non fanno parte del menu standard di ogni ristorante del Celeste Impero all’estero; sorprende invece spesso con chicche inedite, almeno dalle nostre parti.
Texture, contrasti di consistenze e di temperatura, complessità al palato, uso di acido e amaro testimoniano la capacità dello chef di leggere la sua tradizione in modo perfettamente contemporaneo. Quasi che una possibile Nuova Cucina Cinese prossima ventura potesse emettere vagiti proprio a Capriate San Gervasio: che sarebbe pure un bel paradosso, e divertente…