Tutto nel segno dei World’s 50 Best Restaurants, tutto in una giornata a Barcellona un martedì di giugno, il 27, tutto per festeggiare il loro 15° compleanno: subito la visita al laboratorio del Bulli accompagnati da Ferran Adrià; poi un talkshow nell’Antigua Fabrica Estrella Damm con lo stesso catalano, cinque volte numero 1 al mondo, quindi René Redzepi, quattro, Joan Roca, due, Massimo Bottura, una, nel 2016 a New York, una come Daniel Humm e Will Guidara lo scorso aprile a Melbourne. Non pervenuti lo statunitense Thomas Keller, primo nel 2004, e l’inglese Heston Blumenthal, vittorioso l’anno seguente. E dopo aver usato mani e bocca per scrivere e parlare, le stesse sono tornate utili per celebrare un pranzo a ritmo di tapas sulla terrazza del W Barcelona a Barceloneta.
Spagna sugli scudi, con massicci investimenti economici per fare in modo che uno chef iberico torni al primi posto. In Australia terzi i fratelli Roca (e secondo Bottura), troppo poco. E allora ecco i Paesi Baschi aggiudicarsi la premiazione del 2018 tra San Sebastian e Bilbao così come Barcellona e la Catalogna questa
festa, scandita da inviti importanti, soprattutto tra i mille votanti (furono una settantina tre lustri fa) perché si giudicano i ristoranti e non semplicemente i loro chef-patron. E i locali vanno visitati. Non bastano le cene-evento e i pop-up in giro per il pianeta, che servono a fare colore, notizia, piacere ma non possono essere riportati al momento del voto. Non siamo all’oratorio dove tre corner, un rigore.
Tutto questo agitarsi a livello di sistemi nazional-regionali e di lobby (in chiave positiva, all’americana) fanno venire il sangue amaro a Bottura, uno che ha ben presente dove conta esserci, con i fatti e non con le semplice parole, sovente a vuoto, se si vuole essere davvero protagonisti nella sfida globale.
Adrià ha fatto il pifferaio magico prima in casa sua, poi in pubblico. Come ha detto Joan Roca: «Grazie Ferran, sei il numero uno assoluto tra tanti numeri uno e lo sarai sempre». Chiuso il Bulli nel luglio 2011 (sono passati già sei anni,
accidenti), tra fine 2018 e inizio 2019 conta di aprire sulle sue ceneri, sempre a Cala Montjoi, la fondazione, un centro di innovazione assoluta, a 360°. «Investigheremo su tutto, pronti ad accettare qualsiasi offerta a patto sia legale. Ma il vero patrimonio del ristorante sono le 2500 persone che vi anno lavorato, i cosiddetti bullinianos. Nel 1999 ad esempio, passarono di lì
Redzepi,
Bottura e
Grant Achatz e io stesso ben prima fui uno stagista».
Gli ha fatto eco il modenese: «Ferran era un capo durissimo, lavoravi 17 anni al giorno ma tutti avevamo netta la sensazione che stavamo cambiando il mondo». E questo non fa sentire la fatica, impossibile da reggere quando pensi sia inutile. Capisci bene cosa fu il Bulli girando per gli spazi del laboratorio, dove il catalano sta catalogando tutto quello che appartenne al ristorante, compreso il primo servizio di zuppiere, posate e vassoi in argento, una classicità di un lusso all’opposto di quello a cui siamo abituati da una ventina d’anni proprio grazie alla sua rivoluzione.
E il 27 il tema era il
Futuro della Gastronomia che al
Bulli avevano ben presente e che avrei voluto fosse al centro di tutti gli interventi, non solo quello di
Bottura, al solito un trascinatore con una forte visione sociale, e di
Redzepi, il cui invito a mangiare la natura dentro e attorno alle città –
Vild mad ovvero cibo selvaggio – segna idealmente il ritorno alle caverne. Tra le radici strappate al terreno e il foie gras strappato alle oche, ci sono secoli di autentica cucina pensata, bassa e alta, popolare e nobile, effimera piuttosto che concreta, tanto o poco golosa, nuove idee piuttosto che il continuo ripensare al noto che non tramonta mai.