In questi giorni mi ha intristito la vicenda Blumenthal, 400 intossicati nel suo Fat Duck, un tre stelle a tutta creatività non lontano da Londra, e mi ha messo di ottimo umore un libro, un dizionario e un’inchiesta. Con le dovute precisazioni perché il libro è anche una sonora sberla in viso alla cucina italiana e il lavoro dell’Accademia della Cucina Italiana, nobile per la parte relativa alle inchieste dei Nas dei Carabinieri contro le sofisticazioni alimentari, è ben più discutibile quando, nel nome del falso culinario, pretende di fissare nel tempo le ricette tipiche del Buon Paese.
Capisco benissimo che una Carbonara, il classico più stravolto in assoluto, se ha la panna è un’offesa al palato e alla storia (ma solo quella recente, visto che nasce del secondo dopoguerra, tanto antica insomma non è), però poi leggo i dati e vedo che il dato criminale è del 6% e rido. Per due motivi: un po’ per non piangere davanti ad azioni da talebani che nemmeno si sono accorti che il mondo gira ed è il sole che sta fermo e un po’ perché, se davvero vengono sbagliate appena sei carbonare su 100, dobbiamo festeggiare tanto poche sono.
Il risotto è “sbagliato” dieci volte su cento, la pasta al pesto nel 4% dei casi, i tortellini idem e la cotoletta alla milanese nel 3%. A volte ci si imbatte in chi risotta con risi cinesi o con quello nero così come manteca con la panna e rifinisce con la liquirizia. E allora? Piuttosto si vada a vedere quando c’è un ragionamento dietro a una nuova interpretazione perché ricordo un Vitello Tonnato da urlo in Alta Badia, in un St. Hubertus dove Norbert Niederkofler aveva messo il tonno crudo al posto del vitello e la salsa era di carne arrosto, insomma la tradizione rovesciata. Avrei forse dovuto chiamare i carabinieri?
Probabilmente la cucina contemporanea italiana non è ancora famosa nel mondo come spagnola e francese, cinese e giapponese, anche perché noi italiani sprechiamo energie in opere di archeologia quando gli altri guardano al futuro. Una conferma arriva da un volume di assoluto pregio che, esso sì, è un tradimento: Il Grande libro dei cuochi è grande davvero, peccato che la presentazione di Gualtiero Marchesi sia la classica foglia di fico secco messa lì per far credere che quando si presentano le «tecniche e ricette nella scuola di cucina dei più grandi chef del mondo», nell’elenco rientri almeno un cuoco di casa nostra. Invece no. Nei «18 più grandi al mondo» non c’è spazio per gli italiani nemmeno nel capitolo Pasta e gnocchi perché chi racconta i vari passaggi e segreti è Michael Romano che la Rizzoli ha italianizzato in Michele Romano, ma che lo stesso resta un’americano dal cognome e dagli antenati italiani. Però sono pagine davvero ben fatte, con le ricette fotografate passo dopo passo, con quella omelette ripiegata su se stessa a pagina 135 che uno strapperebbe dal foglio per mangiarsela seduta stante.
Presso Slow Food invece, dove si registra il divorzio dal Gambero Rosso a livello di Guida ai Vini d’Italia, Paola Gho ha curato uno straordinario e godibilissimo Dizionario delle Cucine regionali italiane. Lei cura da oltre vent’anni la guida alle Osterie d’Italia, a cui si deve la rivalutazione sul campo - e non nelle biblioteche - delle mille tradizioni della penisola. Tutti sappiamo che siamo il paese dei mille e mille campanili, sappiamo che la zuppa come la fa nostra nonna è diversa e migliore da tutte le altre in valle ma cosa accade nelle valli vicine? E poi già in pianura? E laggiù in riva al mare?
Escluso il mondo del vino, che richiederebbe un’opera tutta per sé, la decina di esperti coinvolti hanno radunato oltre diecimila voci, da Abba ardente a Zurrette, da un liquore a un insaccato sardi passando per tutto quello che fa ricca la tavola italiana. È un libro che si legge con il cuore e che arriva a commuovere perché è chiaro che il valore delle tradizioni spesso è nei ricordi che evoca.