Il giorno che riuscirò a postare a caldo le miei impressioni su Identità, sarò una persona ancora più felice di quanto non lo sia già ora. Se c’è una cosa al mondo che adoro è scrivere, ma chi ha tempo di farlo quando sei al centro di un vortice di lezioni, degustazioni, ricordi, saluti, confronti, assaggi? Lo scorso anno mi ero addirittura comperato un iPad mini per stare dietro a tutto in tempo reale, ma è stata un pia illusione. Quest’anno l’ho lasciato a casa e mi sono giusto concesso qualche tweet, ma un tweet sta a un articolo come una stretta di mano a un rapporto vero. E allora eccomi solo adesso qui a mettere ordine nei pensieri a iniziare proprio dalla tirannia delle lancette.
IL TEMPO. O è troppo o troppo poco. Ci sono i relatori (e sono la maggioranza) che non hanno problemi a restare nei canonici 45 minuti e ve ne è sempre qualcuno che non si contiene e magari crede che più a lungo parla e più cose importanti dice. Io penso che se Dio al settimo giorno aveva già ultimato la creazione dell’universo, chiunque di noi può cavarsela in tre quarti d’ora. E’ anche una questione di rispetto verso chi viene dopo, come Daniela Cicioni, Roberto Ghisolfi e Pina Toscani, penalizzati perché in chiusura di giornata.

Franco Pepe, sua la pizzeria Pepe in grani a Caiazzo (Caserta)
ANTI. E’ un partito molto forte in Italia, lo ha ricordato Oscar Farinetti martedì presentando le sue Storie di Coraggio: “Non appena una da noi fa impresa e propone qualcosa, c’è subito chi lo critica a prescindere da tutto”. E così il sistema si inceppa, l’economia rallenta e il Paese invecchia fino a rischiare la morte per asfissia e inedia. Le critiche gratuite, e a volte in malafede, dovrebbero far male anche a chi le fa perché sono una perdita di tempo ma invidia e ignoranza sono brutte bestie quando le hai dentro.
NOI. Gli entusiasti ragazzi e ragazze riuniti in Noi di Sala, ma anche la lezione di Massimo Bottura che lunedì ha portato con sé sul palco sei cuoche ventenni che incarnano il futuro dell’Osteria Francescana. E come loro, in gran spolvero tutti gli assistenti in scia ai loro chef. Se quando tutto ebbe inizio dieci anni fa, i più parlavano usando la prima persona singolare, io… io… io…, oramai si è passata alla prima plurale, al noi.
SALA. E’ un tema che ci accompagnerà a lungo. Ho maturato la convinzione che un uomo di sala sta alla cucina e ai suoi cuochi come un poeta a un romanziere. Il suo è un agire più meditato, effimero a volte perché si tratta di occhiate, gesti, qualche parola al momento possibilmente giusto. Ricordo che in un alberghetto in Trentino, chiesi una bottiglia d’acqua al primo che incrociai con lo sguardo e il tipo, impettito e vestito come un pinguino, mi rispose “La chieda a un cameriere, io sono il maître”. No, tu sei un pirla.
TROPPE TASSE. Gaston Acurio, peruviano, 32 locali sparsi per il mondo e una certezza: “Non aprirò un ristorante a Roma perché le tasse da voi sono troppo alte”. A iniziare da quelle sul lavoro che stanno strangolando la ristorazione italiana (e l’imprenditoria in generale).
ORIZZONTALE. Deve essere tale, sempre secondo Gaston Acurio, la linea che percorre la ristorazione di un Paese, e non verticale: “In genere si parte dai locali lussuosi e si scende fino al cibo da strada che da noi in Perù è importantissimo ma che tanti evitano con i pretesti più disparati. Gli stessi che vi si dedicano non sono per nulla rispettati da chi ha un minimo di benessere economico. Invece i locali vanno messi sullo stesso piano quando si tratta di giudicarli attraversi i piatti, è democratico. Prendiamo il ceviche, che sia un top chef o un cevichero sempre di ceviche si tratta”. Accade anche da noi, perché un Simone Padoan o un Franco Pepe non devono avere la stella? Perché sono pizzaioli? E allora?
1. Continua