01-02-2016

Napoli sfoglia la margherita

La patria della pizza cerca nuove verità, stretta tra il mito e un disciplinare che alla lunga ha fallito

Una mezza pizza margherita del maestro Enzo Coccia

Una mezza pizza margherita del maestro Enzo Coccia nella sua insegna al Vomero in via Michelangelo da Caravaggio 94a. Attenti: La Notizia è una pizzaria, con la a come seconda vocale per rimarcare lo straordinario legame tra Coccia e la pizza.

(Continua dalla prima puntata)

Penso che il problema della pizza napoletana non debba ridursi al tipo di forno usato per cucinarla: a legna o elettrico? E’ un problema serio, e lo sarà sempre di più perché quello a legna ha gli anni contati e prima o poi diventerà l’eccezione, colpito a morte dai provvedimenti anti-inquinamento. Ma ancora più importante è un altro aspetto: Napoli deve prendere atto che i buoi sono scappati. Al mondo non è più sola e non tutti ne offrono di mediocri e di assurde. Non sempre saranno veraci pizze napoletane, conditi dischi magici, ma buone sì e nulla può vietare a chicchessia di chiamarle pizza. Bello sognare il caso champagne, ma non siamo francesi. Se la pizza fosse nata a Marsiglia, col cavolo che avremmo un’insegna come Pizza Hut.

Come è stato evidenziato benissimo nella due giorni di Pizza forma mentis il 25 e 26 gennaio, la pizza è rimasta circoscritta tra golfo e Vesuvio fino al secondo dopoguerra tanto che nel 1952 il giornalista Roberto Minervini, citato dal professor Antonio Mattozzi, unico a non avere aperto una pizzeria in una famiglia di tanti pizzaioli, si lanciò in una profezia totalmente sbagliata: “Chiunque tenti di aprire una pizzeria fuori Napoli è destinato al fallimento”. Le cose, nei lustri a seguire, sarebbero cambiate e anche se Mattozzi ha ricordato come il mito faccia parte della storia di Napoli, ci sono frangenti in cui è meglio accantonare leggende e folclore.

Nel convegno proprio chi aveva scritto, non da solo, il disciplinare, Antonio Pace, presidente dell’Associazione Verace Pizza Napoletana, ha detto che bisogna ripensarne la ricetta perché dopo 20 anni non tutela nulla perché figlio di troppi compromessi. Da qui tante parole e pochi fatti. Non è stato l’unico a dirlo, segno di difficoltà generale ma anche buon segno perché per cambiare bisogna prima rendersi conto degli errori. Certo non aiuta, vedi Massimo Di Porzio, vice presidente del corporazione, ridurre gli impasti bio, o l’uso di altre farine rispetto a quella di grano tenero OO, a trovate di marketing. Più pratico il maestro Guglielmo Vuolo: “Le cose stanno cambiando, cosa avremo tra vent’anni? Di certo i miei nipoti useranno un forno elettrico”. Sta già accadendo. Ha ricordato la scrittrice Alba Pezone, cuore napoletano ma vita parigina: “Un gruppo intende aprire 42 pizzerie napoletane in Francia nei prossimi due anni. A Parigi il forno a legna è vietato dal gennaio 2015, cosa pensate faranno? Rinunceranno o passeranno all’elettricità?”. La seconda ovviamente.

E il forno divine due figure come Enzo Coccia e Franco Pepe. Per il primo è il pizzaiolo che deve cambiare l’impasto a seconda del forno, per il secondo bisogna invece padroneggiare l’attrezzatura: “Io uso quanto di meglio mi viene offerto dalla tecnologia”. Entrambi hanno poi ricordato di avere mangiate pessime pizze cotte a legno, segno che l’uomo, l’artigiano viene prima. E così eccoci all’altro nodo come ha tuonato Pepe: “Tra innovazione e tradizione c’è la formazione, ma quale? Non si diventa pizzaioli in 25 giorni”. Così il cavaliere Antonio Starita che dopo New York aprirà pure a Milano: “Il pizzaiolo si forma al banco, gavetta altro che corsi. Non mi interessano quelli che escono dalla Bocconi (peccato, sarebbero migliori. ndr). Serve organizzazione e se la pizza fosse milanese, invece che napoletana, avrebbe conquistato il mondo”. Sottinteso senza snaturarsi. Dubito, ma il concetto è chiaro.

Esaltazione della pizza margherita come prossima battaglia partenopea in Europa e nel mondo, formazione da ripensare (qualcuno crede negli alberghieri?), programmazione, apertura al futuro... Parole che cozzano contro la mentalità italiana come ha rimarcato Antonio Lucisano, ex direttore generale del consorzio di tutela della mozzarella di bufala campana. Efficace il suo esempio: “Il Giappone nel 2013 ha ottenuto il riconoscimento Unesco per il washoku, la sua tradizione culinaria. Chi vuole farla sua deve praticarla per almeno 6 mesi, e avrà un certificato di bronzo, un anno, d’argento, due anni, d’oro. Noi invece non solo siamo pessimi imprenditori, ma passione il tempo a misurarcelo e a parlare male dei colleghi”. Verissimo.

2. Fine


Mondo pizza

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a cura di

Paolo Marchi

nato a Milano nel marzo 1955, al Giornale per 31 anni dividendosi tra sport e gastronomia, è ideatore e curatore dal 2004 di Identità Golose.
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