Milano
Quando qualcuno tira in ballo il genio italico in cucina, io penso a momenti che hanno cambiato una consuetudine piuttosto che caratterizzato un prodotto che magari in sé nemmeno ci appartiene perché importato. Penso al caffè, da terroso alla turca a lungo con la napoletana e poi la moka per arrivare a sua maestà l’espresso nelle sue mille varianti, da gocciato alle ciofeche dei nostri cugini francesi che proprio non lo capiscono. E la pizza, così italiana che nessun popolo ha tradotto il termine nella sua lingua fino a un passaggio che, invece, è in pratica solo nostro e per gli stranieri è quasi sanscrito: la cottura al dente della pasta e del riso.
Per noi è tutto, l’anima di un signor piatto di spaghetti o di un risotto. Ma, senza andare a scomodare i cinesi e chi lavora la pasta fresca in forme morbide e brodose, che ben poco hanno da dividere con le nostre, l’al dente divide anche i grande chef della cucina occidentale. Al centro della più recente contrapposizione c’è lo spagnolo Quique Dacosta, titolare del Poblet a Denia vicino Alicante, il cui lavoro sul riso è di uno spessore monumentale. La sua impostazione lo porta a considerare più completo un riso/risotto dalla consistenza a mo’ di paella, un piatto unico, ricco e suadente, che piace tanto anche a noi italiani, a patto non ci si venga a dire che è migliore di un risotto al dente.
Il confronto si è poi spostato sulla pasta perché Quique, a Milano a inizio febbraio per Identità Golose, ha chiesto di potere cenare solo a spaghetti e cugini corti e lunghi, con o senza uovo. La scelta è caduta su Elio Sironi, chef del ristorante dell’hotel Bulgari. Brianzolo di Casatenovo, 48 anni, Elio è lì da quasi un lustro. I suoi Spaghetti al pomodoro sono un paradigma per chi si vuole cimentare con la materia pastaiola. Tre settimane fa si è aperto davanti a Dacosta un mondo nuovo, con un intenso confronto con chi ha diviso la cena con lui, chef a sua volta. Punto focale della discussione, un “al dente” troppo crudo per lo spagnolo che non ne ha fatto tanto una questione di gusto e di resistenza alla masticatura quanto di digeribilità del piatto.
Ricerche mediche hanno però dimostrato che meno la pasta bolle e più basso è il contenuto glicemico. Non solo: un piatto al dente obbliga il consumatore a masticare di più e, quindi, a mangiare più lentamente, con chiari benefici in fase di digestione e assimilazione. Una mappazza insomma, non solo è cattiva ma fa pure male. Il famoso gratin di pasta, tanto presente sulle tavole europee, con quei maccheroncini strabolliti, lunghi e mollicci come lumache sono un attentato alla salute.
Ma resta sempre da capire quando è il momento di levare la pasta dal fuoco per gustarla al dente. Ha fatto notare Moreno Cedroni (la Madonnina del Pescatore a Samigallia): «Perché tutti quelli che vengono in Italia adorano la nostra pasta, ma solo noi ne preserviamo la tecnica? Perché è difficile legare pasta e sugo in maniera naturale, fondendoli in un insieme».
Sironi distingue tra al dente e “alla gengiva”, il passo precedente: «Uno spaghetto che richiede 10 minuti per essere pronto per uscire in sala, bollirà in acqua per 6 minuti per essere rifinito nel sugo per altri 4». C’è però chi, tantissimi in Meridione, ma anche Aimo Moroni (Il Luogo di Aimo e Nadia a Milano), ama la pasta “al punto”, un passaggio intermedio e impegnativo perché l’anima tende al crudo, con un chiaro punto bianco che la rende poco flessibile. È l’esaltazione dello spaghetto rispetto al sugo.
Ma Sironi sta studiando più percorsi, giocando con il fuoco, acceso o spento: «Sto perfezionando la cottura passiva: in pratica la pasta bolle a fuoco vivo per 4 minuti, poi tolgo la pentola e la metto da parte perché la pasta cuocia dolcemente in un’acqua che perderà via via calore. L’amido rimarrà così nella pasta senza intaccare il glutine». Paste di grano duro, possibilmente artigianali, impasti lenti e essicazioni lunghe, a temperature basse. Deve esserci rispetto in ogni momento.