Castiglione della Pescaia (Grosseto)
Quando a marzo lo statunitense Harold McGee, due lauree, chimico alimentare molto curioso, scrisse sul New York Times che la pasta andrebbe cotta in poca acqua, buttandola dentro a freddo, noi italiani ci confermammo campioni olimpici di “presuncialismo”, quel mix di presunzione e provincialismo che ci distingue da sempre. I più, invece di porsi il dubbio (e se avesse ragione?), si sono appellati alla tradizione, al litro di acqua bollente per etto di spaghetti, come se tutto, anche una certezza, non fosse figlia di tanto provare, pensare, sbagliare, fare.
Invece avremmo fatto bene ad andare a fondo della cosa perché attorno alla pasta è tutto un discutere per arrivare alla ricetta perfetta tanto che Identità Golose 2010, dal 31 gennaio al 2 febbraio a Milano, le dedicherà una giornata. Non mancherà chi chiederà di definire il concetto di al dente e chi scoprirà che ci sono i fedeli della cottura “alla gengiva” come Elio Sironi del Bulgari a Milano. È ancora più cruda, almeno quando viene tolta dall’acqua: «Uno spaghetto che richiede 10 minuti per essere pronto per uscire in sala, bollirà in acqua per sei minuti per essere rifinito nel sugo per altri quattro».
E non si sbaglia, anche a livello di digeribilità. Ricerche mediche hanno stabilito che meno la pasta bolle, più è basso il contenuto glicemico. E ancora: un piatto al dente obbliga a masticare di più e, quindi, a mangiare più lentamente, migliorando digestione e assimilazione. Da qui tanto lavoro attorno alla pentola. Sempre Sironi: «Sto perfezionando la cottura passiva: in pratica la pasta bolle a fuoco vivo per 4 minuti, poi spengo e metto da parte la pentola perché la pasta cuocia dolcemente in un’acqua che perderà via via calore. L’amido rimarrà così nella pasta senza intaccare il glutine».
Sironi appartiene al futuro, altri sono in perfetta scia con certa tradizione, bravi a esasperare il segreto di ogni casalinga che tira la pasta nella padella del sugo per un amalgama sopraffino. Nulla batte una pasta cotta nel sugo come fosse riso che evolve a risotto. È un procedere scomodo, soprattutto con i formati lunghi, cari ad esempio a Romano Franceschini a Viareggio e un tempo a Moreno Cedroni a Senigallia, e questo blocca molti chef, prima che troppe ordinazioni blocchino le loro cucine. Molto meglio quelli corti, tipo le penne, più compatti come per Alain Ducasse e i suoi discepoli, ad esempio Christophe Martin, della Trattoria Toscana all’Andana a Castiglione della Pescaia in provincia di Grosseto, 0564.944800.
I paccheri, ma pure la calamarata, sono cotti nel sugo; dei vari formati corti il pacchero è il solo che viene sbollentato perché troppo ingombrante e il piatto arriverebbe a cottura dopo un’eternità. Quest’estate i Paccheri Gragnanesi con cacciucco di polpo e ceci mi hanno stordito per personalità e intensità. Per il cacciucco, Christophe fa bollire il polipo in acqua e vino rosso, piano piano per evitare che la pelle si stacchi e in una casseruola inizia a preparare la base, con tanto di punta di vitello (un etto per 4 persone) e l’immancabile vino. A parte anche i ceci (ricoperti di brodo). Per capire l’essenza di una pasta risottata, riporto un passaggio: «Cuocere i paccheri in abbondante acqua salata (...), scoliamoli e continuiamo la loro cottura nella salsa, bagnando con l'acqua di cottura del polipo e girando di tanto in tanto come un risotto ma coperto. Quando ai paccheri mancheranno 10/12 minuti di cottura, aggiungeremo il polipo, le verdure, i ceci, il finocchio e un po’ di peperoncino. A cottura ultimata, andremo a mantecare aggiungendo un cucchiaino di ristretto di vino, prezzemolo e olio. Servire con un giro d'olio e una bella grattugiata di pepe». Morale: la miglior pasta è un risotto. Chi volesse provare, non fa altro che chiedermi la ricetta completa per e-mail: paolomarchi@identitagolose.it.