Abituati alle luci e ai lustrini della ristorazione occidentale, i grandi chef e i grandi locali italiani ed europei, ma anche di Hong Kong, Tokyo e Singapore piuttosto che New York, Chicago e la California, fa solo bene trascorrere tre giorni a Kiev, capitale tormentata dell’Ucraina. L’occasione è arrivata a inizio febbraio con la seconda edizione di Fontegro, il congresso di cucina organizzato da Ekaterina Avdeyeva e Anna Zelenokhat nello stadio olimpico dove gioca la Dinamo Kiev, una leggenda del calcio.
In una sala il palco, sei lezioni il primo giorno e altrettante il secondo, e in una più vasta e bella dodici espositori. Sono cifre che in assoluto possono apparire quasi risibili (nel 2005 Identità debuttò con 18 relatori, che salirono a 30 l’anno seguente), ma tutto in questi anni in Ucraina è terribilmente difficile e penalizzato dalla pressione russa, il nemico sulla porta di casa e anche dentro casa. Le organizzatrici devono affrontare una serie infinita di problemi. Basti dire che all’esordio non c’erano espositori. Da zero a dodici è già un bel balzo in avanti.
Quanto ai cuochi stranieri, costa enormemente coinvolgerli e ogni invito va ponderato bene, un aereo in più e il budget salta.
Ekaterina e
Anna hanno dato vita a
Fontegro perché fosse di esempio e di sprone per i cuochi ucraini e farli crescere anche se i primi a non capire sono i ristoratori interessati solo al presente. Rarissima la figura dello chef-patron. Lo stesso ha scritto con orgoglio la giornalista
Marina Mayevska: “Prima potevamo guadare solo a
Madrid Fusion e
Identità Golose. Adesso anche noi abbiamo la nostra manifestazione”. E’ la stessa motivazione che spinse
Claudio Ceroni e il sottoscritto a creare
Identità.
Però noi eravamo circondati di grandi talenti, tanto che avevamo il problema opposto alle mie colleghe dell’est europeo. Io troppa abbondanza e loro troppa penuria. La stagione scorsa solo uno chef ucraino presente sul palco, Yuriy Priemskii, stavolta lo stesso, giusto Denis Komarenko, chef al Tarelka Gastrocafè, una passione sincera per il pane. Che però non ha affatto presentato sapori e sapienze della sua terra, bensì della nostra, dell’Italia. “Come chef non ha mai cucinato ucraino”, mi ricorda la Mayevska, contenta comunque che un suo connazionale abbia rotto il ghiaccio e sia stato invitato.
La pattuglia italiana, forte di
Cristina Bowerman,
Lisa Casali,
Davide Scabin e
Franco Aliberti, ai quali aggiungere la slovena
Ana Ros il cui locale se ne sta a Caporetto, a un pugno di chilometri dal confine con il Friuli, ha strabuzzato gli occhi quando
Komarenko è salito sul palco con diversi salumi simil-italiani, prosciutto cotto ma anche lardo presentato come di Colonnata e addirittura culatello visto che tutto nasce da un corso all’
Antica Corte Pallavicina di
Massimo Spigaroli a Polesine Parmense.
Il trionfo dell’italian sounding, del falso prodotto tricolore quando a uno stand c’era una eccezionale gamma di pancette e salami ucraini. Solo che hanno meno presa su un certo pubblico, in una città come Kiev dove le insegne italiane spopolano su più fronti. E con la crisi dettata dal confronto violento con la Russia di Putin, i prodotti originali costano troppo e così sempre più ristoratori cucinano italiano con materie prime locali. Nulla contro chi viene a scuola da noi, a patto distingua bene i suoi salumi dagli originali.
Oltre agli italiani, si sono distinti il fiammingo Kobe Desramaults, l’americano Mark Bitterman, per lui il sale non ha segreti, e il turco Maksut Askar. Gli altri avevano meno mordente per noi occidentali. Fontegro vuole essere una vetrina delle varie realtà ristorative dell’Europa orientale e questo spiega determinate scelte anche a livello di cene. Prima sera tutti al Kupecheskiy dvor, al limitare di un bosco poco fuori Kiev. Tutto molto tipico, ma anche molto datato e poco interessante salvo un ottimo Borsh con carne di anatra e barbabietola affumicata, panna acida e pancetta.
Tornerei invece subito da
Shoti, struttura poderosa e bella, tutta legno e più livelli, soprattutto una culla della cultura gastronomica georgiana che gli ucraini ammirano ma che non possono certo sentir loro. Già dal pane, una sorta di ciabatta, e davanti a una crema di melanzane si capiva la forza della cucina, una dichiarazione di serietà e attenzione per ogni aspetto che va a comporre una cena. Stessa proprietà, lì accanto ecco
Napule. Pizze però quando ne è arrivata una bianca al formaggio, sorta di scamorza non troppo filante, è stata presentata come tipicità georgiana perché il cacio fuso, già servito prima in un tipico tegamino che ricordava la raclette del Vallese, appartiene comunque a quella cultura.
Fontegro? Sì, grazie.