17-09-2019

Luca Iaccarino, cintura nera di trattorie

Gli inizi, i ristoranti del cuore, i cuochi sottovalutati. Intervista al food writer torinese, una vita pop ma anche un po' top

Luca Iaccarino, torinese, classe 1972. E' food

Luca Iaccarino, torinese, classe 1972. E' food editor della casa editrice "Edt", responsabile della collana de "I Cento" e collaboratore di "Repubblica"

Continua la nostra serie dedicata ai più interessanti food writer e critici gastronomici del momento. Dopo il franco-catalano Philippe Regol, il francese François-Régis Gaudry, la sino-americana Melinda Joe, l'italiano Andrea Grignaffini, l'anglo-australiana Joanna Savill, è il momento del torinese Luca Iaccarino

Quando e dov’è nato?
A Torino il 16 settembre 1972. In quell’annata non è stato prodotto il barolo: qualità troppo bassa. Tecnicamente partorito sotto la Mole, i primi 13 anni della mia vita li ho vissuti però in Liguria, a Genova Pegli. Forse è per questo che i filetti d’acciughe salati sono il mio prodotto preferito in assoluto (va detto che la Via del sale le ha sempre portate fino al Piemonte, dove magicamente si trasformano in bagna cauda).

La sua formazione: cos'ha studiato?
Liceo scientifico dai rigorosissimi padri gesuiti dell’Istituto Sociale di Torino, laurea in Economia Commercio presa con caaaalma. Ho cominciato a fare il redattore in una rivista a vent’anni, ho incastrato gli esami tra una correzione bozze e la chiusura di un numero. Da bambino volevo fare il giornalista, da adolescente il musicista, ho fatto economia per avere pronto un piano C. Grazie al cielo è andato il piano A. Per ora.

Com'è nata la passione per la cucina?
Ho da poco ritrovato il giornaletto che producevamo e distribuivamo fotocopiato con alcuni compagni in prima media. Si chiamava “La Carota”. Io curavo la pagina della ricetta. Era il 1984. L’unica trasmissione di cibo che c’era in tv, allora, era “Il Pranzo è servito” (lo so che non è vero, ma come non citare il celebre “garbo di Corrado”?).

Quando hai iniziato a scrivere?
Anche alle elementari avevo un giornaletto. Ho sempre letto, ho sempre scritto. La passione per la scrittura m’ha conquistato prima di quella per la cucina. Poi grazie al cielo si sono intrecciate quasi subito: non potrei rinunciare a nessuna delle due. Dovendo scegliere, mi considero un giornalista dedicato al cibo e non un gastronomo che s’è messo a scrivere.

CULT. "Il pranzo è servito" di Corrado Mantoni (1924-1999)

CULT. "Il pranzo è servito" di Corrado Mantoni (1924-1999)

Nino Bergese (1904-1977) e il mito de "La Santa" di Genova

Nino Bergese (1904-1977) e il mito de "La Santa" di Genova

Per quali giornali ha scritto nella sua vita? 
“La Carota” l’ho già citata? Beh, dopo quella il giornaletto del liceo – Cactus – e poi uno negli anni dell’Università (ma non finanziato dall’Università!): “1984”. “1984” fu importante: non solo erano gli anni della mia formazione – i primi Novanta – ma allora è partito tutto. Su “1984” scrivevano anche Stefano Cavallito e Alessandro Lamacchia con i quali, tutt’ora, dirigiamo la collana di guidine ai ristoranti di Torino, Milano e Roma “I Cento”. Grazie a “1984” fui scelto da un magazine torinese – si chiamava “Anteprima Torino” – come redattore, cominciando sul serio a fare questo lavoro (ehi, era il 1992 e guadagnavo un milione e mezzo al mese! Bei tempi). Grazie a “1984” ho cominciato a collaborare con “La Repubblica” per la quale mi pregio di scrivere tutt’oggi: in principio una mini-rubrica satirica, “Il peggio della settimana” (mi costò una causa da Mc Donald’s), poi una sui kebab. Collaborazioni in cinque lustri tante, quelle che resistono sono “Vanity Fair” e “Sale e Pepe”. Ho traversato riviste italiane e straniere le più diverse, da “Maxim” (per anni mi sono occupato di spettacoli) a “Slowfood”. Ho diretto per sette anni il bimestrale “Extratorino” e ho anche avuto qualche detour: un anno da programmista a Rai 2, uno per Canal Jimmy, per due ho condotto una trasmissione radiofonica con lo scrittore Andrea Bajani. Ho scritto un po’ di libri: il più divertente è “Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi di Torino” (EDT), il più audace “L’insostenibile leggerezza” (biografia autorizzata di Donato Broco, il trans della vicenda Lapo Elkann; Bevivino), il più bello “Dire Fare Mangiare” (ADD), il più fortunato “Cibo di strada” (Mondadori). Ah, e poi un tot di guide Lonely Planet, del cui editore italiano – EDT – sono food editor.

Quali sono i ristoranti che le hanno cambiato la tua vita?
La Santa di Genova: il primo ristorante importante della mia vita, quello che era stato di Nino Bergese. Con i miei genitori, compleanno di mia madre, direi 1983 (mio padre le regalò un phon). Una sorta di presagio. Se invece devo dire la trattoria in cui sono cresciuto è Vino e Farinata di Savona: Giorgio, Bruna e Angelina Del Grande la aprirono nel 1979, io avevo 7 anni. Da allora è di certo il luogo in cui mi sono sentito più a casa, in cui mi son sentito figlio con i miei genitori, fidanzato con le mie fidanzate, amico con i miei amici (ora ha cambiato gestione e, almeno per me, non è più la stessa cosa). Trovare una trattoria di cui diventare habitué, in cui crescere, è una delle cose più belle della vita. Vale anche per le trattorie Pigaron (non esiste più), Carmen, Da Felice e Alba di Torino (ma cuochi abruzzesi, campani, toscani): sono i posti che mi hanno dato da mangiare dai 13 anni in su quotidianamente, quelli che più di tutti altri hanno formato il mio gusto. Vecchie osterie con la cucina di mercato (che è a un passo): i carciofi quando ci sono i carciofi, gli asparagi quando ci sono gli asparagi. Slow Food non esisteva ancora e loro avevano già capito tutto. Ai Torchi di Finale Ligure. Anno 2005. Una cena terribile ma chiesi a quella che sarebbe diventata mia moglie di sposarmi e lei accettò. Dunque la definirei comunque un successo. Paul Bocuse: mi ci portarono i miei più cari amici per l’addio al celibato. Anno 2006. Arrivammo in camper, ci cambiammo alla bell’e meglio nel parcheggio, scendemmo tutti trafelati. Lui uscì dal ristorante, ci venne incontro, ci disse “mes cheres amis!” senza averci mai visti. Capii cosa vuol dire l’ospitalità. Trattoria Il Filo di Marianna, uno dei tanti locali semplici del quartiere di San Salvario a Torino, il mio: mangiando uno spaghetto alle vongole mia moglie mi comunicò di aspettare il nostro secondogenito. Era il 2011. Il nostro primogenito aveva 10 mesi. Spaghetto memorabile. Il vecchio Noma a fine carriera, anno 2017: un pranzo meraviglia, ma soprattutto condiviso con grandi amici. Per quanto la cucina sia pazzesca, per me la compagnia è ugualmente importante. Anzi, spesso direi conta addirittura di più.

Vino e Farinata, Savona

Vino e Farinata, Savona

Gli agnolotti d’asino della Taverna di Fra Fiusch, di Revigliasco

Gli agnolotti d’asino della Taverna di Fra Fiusch, di Revigliasco

Analogamente, quali sono i piatti che ricorda nitidamente?
Le cozze ripiene dell’Osteria del Carugio di Portovenere in una perfetta serata di luna piena; le acciughe marinate della Rosa dei Venti di Albisola Capo, uno dei miei posti del cuore; tutte le acciughe al verde della mia vita; i panini tostati con foie gras e roquefort da due lire al Can Paixano, a Barcellona all’inizio dei Novanta; gli agnolotti degli Alciati, tutti (tutti gli agnolotti e tutte le generazioni di Alciati); il sugo d’arrosto degli agnolotti di Matteo Baronetto, a Del Cambio; gli agnolotti d’asino della Taverna di Fra Fiusch di Revigliasco, dove ho passato i miei anni Novanta/Zero; tutti i classici di Davide Scabin (che grande fortuna essere cresciuto con il Combal a un passo) più degli incredibili fegatini di coniglio che spadellò nel cuore della notte un’estate che stava al compianto Blupum di Ivrea; gli asparagi selvatici da Ducasse al Louis XV di Montecarlo; i peperoni ‘mbuttunati della mamma di Giuseppe Iannotti a Telese Terme; gli scampetti stufati serviti con una vinaigrette su una spiaggia vietnamita da una signora che li vendeva sulla battigia; il baccalà a casa di Mariella e Moreno Cedroni; i crostacei al Fisherman’s Wharf a San Francisco prima di andare a vedere il motomondiale a Laguna Seca; le teste di pesce alla brace di Ultimo Porto a Lisbona (grazie, Diego Rossi, quante ne sai!); le bistecche di Etxebarri; i molluschi di Estimar; il chuleton del Bar Nestor a San Sebastian; la cozza di mezzo secolo alla carbonara Redzepi-Canella al Noma; tutte le zuppe dei baracchini di strada a Bangkok; gli anticuchos di cuore per strada a Cuzco. Potrei andare avanti per ore ma mi sta venendo troppa fame.

Fine dining o ristorazione casual? 
Credo che una delle poche cose che ci ha insegnato la storia è che ci sono dei cicli. L’Italia era tutta trattoria e conforto. Quindi è venuta a noia. Quindi s’è innovato. Poi l’innovazione s’è spenta – mica si può sempre inventare – ed è arrivata l’omologazione. Dunque ora si vuole di nuovo trattoria e conforto. Sarà così per dieci anni. Poi ci stuferemo di nuovo – di camerieri in maglietta, di robe naturali – e si spera arriverà qualcuno che avrà qualcosa di nuovo da dire. Quel che conta è che l’asse di questa onda trasversale sia verso l’alto, cioè che tutte le volte che si torna indietro lo si faccia avendo appreso delle cose, migliorando: se oggi si torna alla lasagna spero proprio che sia migliore di quella di trent’anni fa, se no son volatili per diabetici.

Quali sono i cuochi più sottovalutati?
Non credo molto nei geni incompresi. Poi ci sono quelli poco premiati dalla critica, ma amatissimi dal pubblico: penso a Federico Zanasi a Condividere a Torino. Fa il suo, sta in cucina, il ristorante è sempre pieno anche senza PR spinte. Semplicemente perché la cena è una festa. Anche Perdomo al Contraste di Milano meriterebbe più tituli e più stampa, ma chi se ne importa se il locale è amatissimo e pienissimo? Mi piace tanto Taglienti che forse per la posizione un po’ defilata del Lume, sempre a Milano, ha meno riscontro di quello che potrebbe. Ci vorrebbe una domanda poi per i più sopravvalutati, ma visto che non me la fai non risponderò (così mi evito anche di litigare).

Federico Zanasi, Condividere, Torino

Federico ZanasiCondividere, Torino

Cesare Grandi, ristorante La Limonaia, Torino (foto www.cucchiaio.it)

Cesare Grandi, ristorante La Limonaia, Torino (foto www.cucchiaio.it)

Quali sono i giovani più promettenti, quelli di cui ancora non parla nessuno?
Se mi dici “di cui ancora non parla nessuno” rispondo Cesare Grandi, ristorante La Limonaia, Torino, il cui nome non mi pare ancora aver varcato i confini cittadini. Forse il cuoco che ho visto crescere di più in questi anni, lavorando a capo chino, passo dopo passo. Vedrete, vedrete.

Qualche ossessione?
I locali in cui milioni e milioni di italiani fanno quotidianamente la pausa pranzo. Diamine: distinguere le pause pranzo buone – proposte con onestà e professionalità – da quelle cattive è fondamentale, forse ancor più che indicare i locali di fine dining. Nell’alta ristorazione le persone mangiano una volta ogni tanto, nelle tavole calde/bar/trattorie/fast food tutti i dì. Ho un appello per i colleghi: occupiamoci anche dei pranzi al costo di un ticket. Non sono tutti uguali, e i lettori hanno tanto bisogno di strumenti per scegliere.

C’è altro?
Un’ultima considerazione: non condivido i cuochi che pensano il proprio ristorante prima di tutto come espressione della propria creatività. Un ristorante non è arte, è artigianato: lavora al servizio del cliente, non del proprio creatore. Poi, naturalmente, l’artigiano esprime se stesso, ma sempre in funzione di chi sta dall’altra parte. I più grandi cuochi del pianeta – da Ducasse ai Roca, da Humm a Colagreco – ce l’hanno ben presente. Mi rammarica molto che alcuni incauti non se ne rendano conto.


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