Andrea Graziano
Zafferano, oro e riso
Zanattamente buono Amelia di Paulo Airaudo, un ristorante programmato per far godere (e tenere i conti in ordine)
Gin, tequila, mezcal, rum… Le bottigliere dei cocktail bar sono un mondo affascinante, dove ogni etichetta racconta una storia più o meno recente. Accade però che non tutte le belle storie della distillazione siano state raccontate e che le assenze di alcune etichette siano molto più interessanti di certe presenze.
Non una mancanza ma, nel caso del pisco, una assenza giustificata: il distillato nato in Perù nel 1500 non è esploso sui banconi e nelle bottigliere dei bar italiani. Da un lato per una distribuzione non ancora capillare, dall’altro per la fortuna di altri spirits oggi più in auge.
Il diamante liquido, come viene definito nella sua terra natia, ha legami forti con il suo territorio di produzione sia per il nome – pisco deriverebbe dal termine pisku che, in lingua quecha, significa piccolo uccello e indica una piccola cittadina costiera tra Ica e Nazca dove nidificano piccoli uccelli –, sia per una produzione vitivinicola di origine spagnola ma poi continuata con grande successo dagli indigeni. La coltivazione della vite, infatti, ha trovato un terreno fertile in un’area vocata tra Lima, Ica, Arequipa, Moquegua e Tacna con la valle di Locumba, Saina e Caplina, e ha dato vita a un distillato d’eccellenza prodotto da mosto di uve aromatiche (Albilla, Italia, Moscatel e Torontel) e non aromatiche (Negra Criolla, Mollar, Uvina e Quebranta).
Ne risulta un distillato ad alta gradazione, dai 38 ai 42 gradi, che trova le sue massime espressioni nelle piccole produzioni artigianali caratterizzate da un numero limitato di bottiglie e da tradizioni che si tramandano di generazione in generazione.
È con questo spirito che l’Ufficio Commerciale dell’Ambasciata del Perù in Italia, Ocex Milàn, promuove oramai da tre edizioni la Pisco Week sia a Milano sia a Firenze.
Ben ventotto locali milanesi e altrettanti barman, hanno aderito all’iniziativa portando il proprio contributo nel delineare un percorso di avvicinamento al pisco e accettando non solo la sfida di creare un signature cocktail con il distillato peruviano ma di abbinarlo a uno dei super food tipici della cultura gastronomica peruviana.
L’incontro tra culture diverse, racchiuso nella storia del pisco e della sua patria, la ricchezza di ingredienti del Sud America, sono la missione che Ivan Castillo ha fatto propria nel pensare una carta di ben 4 cocktail dedicata e realizzata insieme al collega e patron del bar Raboucer, Andrea Pirola.
Il cocktail che abbiamo assaggiato al Raboucer
Più italiano è invece, l’aneddoto che racconta la nascita del Chilcano, originariamente conosciuto come “Buongiorno”, bevanda a base di grappa e ginger ale. I nostri compatrioti emigranti in Perù portarono con loro questo miscelato che venne, in seguito, modificato dai peruviani con l’impiego del loro distillato bandiera e ribattezzato come Chilcano, una zuppa a base di pesce somministrata per curare l’hangover.
Il cocktail del Bulk
Patruno ha voluto unire due grandi classici della miscelazione peruviana: il Pisco Sour e la Chica Morada. Quest’ultima è una bevanda a base di mais viola, un super food che regala anche al cocktail un particolare tono di rosa. Patruno inoltre, aggiunge pisco quebranta e limone come da ricette del sour, e uno sciroppo homemade di coriandolo e peperoncino che donano un guizzo di piccantezza irresistibile a tutto il cocktail.
Il cocktail del Diana Majestic
Il destino del pisco non è esclusivamente nelle mani dei cocktail d’autore, i grandi classici riservano tante opportunità ad esempio utilizzandolo al posto del gin in un Negroni o in un Pisco&Tonic e, perché no, anche semplicemente in purezza a fine pasto.
sceneggiatrice e scrittrice, dalla scuola di giornalismo enogastronomico del Gambero Rosso è approdata a Identità Golose
ll mondo dei cocktail e dei bartender raccontati da Identità Golose.