Un nome, un manifesto, quello scelto da Jacopo Ricci: il Dopolavoro evoca altri tempi, di collettivi, lotte e circoli, ma anche di luoghi di aggregazione genuina, senza sovrastrutture, in provincia ancora possibili. Ambiente semplice, citazioni di Lindo Ferretti nei quadri, doghe in legno da vecchia trattoria.
Ricci ha un bagaglio grosso sulle spalle: la Spagna di Carme Ruscalleda, i corsi di Alma, tre anni in Alto Adige al Parkhotel Laurin, oltre tre anni al Pagliaccio di Anthony Genovese, poi l’avvio di Jacopa a Trastevere. Questo prima di tornare a casa, per scardinare lo stradominio di porchetta e fraschette. Il cuoco ha tolto dai piatti tutto ciò che ritiene superfluo: la mania degli estetismi, le troppe basi, la trasformazione eccessiva dei prodotti, per concentrarsi sull’essenza (che vuol dire materie prime scelte a dovere, filiera etica, tanta autoproduzione, ma anche un dichiarato rispetto del lavoro e dei lavoratori).
I piatti sono intellegibili, ma mai ovvi. I vini, in linea, sono artigiani: produzioni locali ed etichette naturali pescate un po’ in tutta Italia, con criterio. Se in dubbio, basta chiedere, si viene consigliati e serviti con professionalità.
articolo a cura degli autori di Identità Golose
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Tavoli all’aperto
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