Un napoletano teutonico, si potrebbe dire di Aniello Turco. Uno chef, che era già garzone in cucina a 13 anni nel ristorante di famiglia e sapeva quello che voleva fare da grande, ma che col tipico estro campano ha cambiato paese, lingue, mentalità e tipo di cucina come un Prometeo dei fornelli: Alain Ducasse, Noma a Copenhagen, Trussardi a Milano, Apsleys a Londra e ora Mio a Pechino.
«Da Redzepi ho imparato l'importanza delle fermentazioni, che sono il futuro della cucina, perché riflettono il ruolo della natura, che è eterna ma non si ferma mai», dice appassionato, «pensate alle fermentazioni millenarie asiatiche che ricordano il garum dei nostri antichi romani». E in questo panta rei di esperienze a 32 anni, "Eraclito" Aniello è diventato uno degli chef più in vista di Cina.
La Sogliola avvolta nella pera e cavolo viene prima salata, come fosse un baccalà, poi cotta al vapore, come uno xiaolongbao, ma non nell'acqua bensì in un aceto stravecchio dello Shanxi. Anche la Cacio e pepe viene fatta in un tè di pepe nero di Sarawak, con aggiunta in finale di spuma di pecorino, che ricorda un noodles alla pasta di soia fermentata. Anche il dolce è una commistione di gelato di cedro, Yuzu e milk cramble. E sono queste stagionalità, le ritualità e le trasformazioni degli ingredienti che entusiasmano Aniello.
Il setting è quello cool contemp-chic di un hotel 5 stelle (il Four Season). Per cui ci sono tutte le amenities internazionali, tra cui una griglia Josper in cui imbrunire ogni tipo di Wagyu. Dopotutto, anche il Wagyu in Cina è una razza a cavallo tra paesi diversi...
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giornalista col vizietto dell'esterofilia (da buon germanista) e del cibo (da buon modenese), dal 2007 vive felice in Cina, a Shanghai, tessendo ponti tra Oriente e Occidente