Prima di tutto, una nota di cultura generale: dim sum non significa raviolo, in cinese, bensì “spuntino”, in Cantonese, ossia quello che si fa, con piccoli assaggi, bevendo il tè. Il cosiddetto rito dello Yum Cha si può assimilare a un pranzo da fare in gruppo ed è popolarissimo in tutta la Cina sud-orientale. Tradizionalmente si fa attorno all’ora di pranzo, in enormi sale da tè in cui carrelli passano fra i tavoli servendo prima cestini di bambù fumanti e poi via via bocconcini fritti e infine dolciastri.
Questa è storia, perché oggi i dim sum sono anche cibo da aperitivo, da ristorante pluristellato e da brunch domenicale nei grandi hotel, basta andare nelle capitali mondiali per capirlo. Non in Italia però, qui neppure l’ombra. Tranne che da Dim Sum che dal 2013 ha portato a Milano una versione fine dining con materie prime scelte, tè selezionati e carta degli champagne: non si spende poco, ma è perfetto per una cenetta romantica.
Una cinquantina di tipologie che si differenziano per ripieni e forme, impasti e tecniche di cottura – affidatevi a loro per poter provare dim sum al vapore, alla piastra, fritti, di farina di frumento o riso, in un crescendo di sapori. Dal 2018 oltre ai classici e ai loro signature con Chianina, Aceto Balsamico e tartufo, sperimentano con creazioni come Jiaozi di zucca e carne mielata in pasta di riso rosso o quelli viola di anatra e vino di riso in pasta di riso.
Il merito è di Lin Ruizhong. Per fargli onore, ordinate una Crispy Duck come va di moda a New York.
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articolo a cura degli autori Identità Golose