01-11-2018

Tris d'assi a Manhattan

Momofuku Ko, Blue Hill e Eleven Madison Park a confronto: cosa ci piace (e cosa no) nella ristorazione blasonata di NY

Lo scenografico ingresso di Eleven Madison Park a

Lo scenografico ingresso di Eleven Madison Park a Manhattan, New York (foto Zendrini)

Sì, ci sono andato. Sì, ci ho mangiato. Mi sono piaciuti? Dipende... Adesso vi spiego. Innanzitutto, di chi parliamo? Di alcuni dei grandi ristoranti della Grande Mela, quelli di cui tutti parlano, quelli in cui i gastro-fanatici vogliono assolutamente andare e al 99% non trovano posto, non riescono a entrare neanche in lista d'attesa. Quei posti di cui il tuo giornalista di fiducia ti dice «assolutamente sì», quello accanto «assolutamente no!» e il terzo di turno «mah... vedi tu!».

Per prepararci ci siamo intanto fatti un pollo arrosto da Nomad e uno al Soho Grand (il secondo tutta la vita, fidatevi: e non è come entrare nelle catacombe di San Callisto da tanto è buio il Nomad!). Ancora un paio di (da urlo!) dog dei carrettini di Central Park. E un hamburger da JGMelon. Poi ci siamo sparati un tris d'assi in tre giorni: Momofuku Ko, Blue Hill New York e Eleven Madison Park. Cominciamo dal primo.

Sean Grey e David Chang, chef e patron di Momofuku Ko (foto Melissa Hom/Grub Street)

Sean Grey e David Chang, chef e patron di Momofuku Ko (foto Melissa Hom/Grub Street)

Momofuku Ko. David Chang ha diversi ristoranti e bar a New York, due a Washington, due a Las Vegas, uno a Los Angeles, uno a Sydney e tre a Toronto. Come faccia a gestirli tutti lo sa solo lui, ma i proventi delle sue apparizioni e delle sue serie televisive, tra Netflix, ABC, CBS e televisioni straniere sono certo ben distribuiti.

Belli... son bellissimi, con quell'allure jap/fusion/tech/modern che fa un po' Kill Bill e un po' Sayonara. Buoni... è un'altra storia. Abbiamo puntato in alto, al più prestigioso e altolocato di tutta la serie di ristoranti: il Ko di New York. È a Soho, Manhattan, in un vicoletto che di altolocato ha solo 4 lampadine che pendono per illuminarlo. Ma l'interno è da wow! Modernissimo, legno di pero e ciliegio, mogano e cemento grezzo, acciaio lucidissimo sui banconi e ovunque, personale super gentile e tavolo (tavolo, non bancone!) solo per noi. Quindi super trattamento!

Peccato che da questo momento in poi, da quando ci siamo seduti, si siano succeduti una serie di piatti di non memorabile presenza, né tantomeno gusto. Vi cito solo, uno per tutti, un Petto di pollo freddo, glassato e fritto, con ostrica e kimchi bianco... ma che alla fine era un pezzetto di pollo freddo pitocco e con un leggero sapore dolce di miele.

Niente di che... anzi, anche no. O un Uovo al Caviale... Che altro non era che uovo bardotto, caviale e piccole chips di patate. L'uovo era buono... Ma è un piatto? Mah. O una fettina di manzo al pepe, lasciata frollare 5 settimane e passata velocissimamente sulla piastra per scottarlo. Ma che resta una fettina di manzo. Insomma, ero anche in buona, anzi ottima compagnia. E quando siamo usciti, dopo aver pagato una cifra a dir poco importante, ci siamo detti: «Ma perché?».

Dan Barber, patron di Blue Hill a Manhattan e a Pocantico Hills (foto bluehillfarm.com)

Dan Barber, patron di Blue Hill a Manhattan e a Pocantico Hills (foto bluehillfarm.com)

Blue Hill New York. Diversa l’esperienza nel secondo dei super-restaurant. Anche qui lo chef è mediatico, Dan Barber, star di Netflix e di molti show. Ma star "al contrario" rispetto a David Chang: Dan mette in scena la campagna, la tranquillità, il valore del prodotto e della terra tanto che, dopo aver aperto Blue Hill New York nell' anno 2000 e aver conquistato i palati newyorkesi, riesce ad ottenere in uso dai Rockfeller una delle loro fattorie a Pocantico, un'ora a Nord di New York.

Ora questa seconda estate è il suo ristorante principale ma per affetto e tradizione Barber ha mantenuto anche il primo, lo storico posto di New York. Ed è qui che siamo stati, nonostante alcuni nostri amici, andati a Pocantico la sera precedente su nostra indicazione, fossero tornati in città con una grossa delusione («Abbiamo mangiato 28 piatti e non ce ne ricordiamo nessuno...») e con il portafoglio svuotato fino all'ultimo dollaro.

Noi, invece... Il ristorante del Village è carino, pulito, romantico. Le luci sono giuste (odio i ristoranti in cui non vedi nel piatto cosa stai mangiando). Il volume della musica fa sì che ci si possa parlare e il locale, pur piccolo, non è caotico o frastornante.

Quello che stupisce da subito è la cucina e i piatti: belli, diversi, vegetali ma non banali. Come se qui lo chef avesse portato quelli più interessanti, e concentrato in 8 portate l'essenza della sua cucina. E, devo dire, a noi è molto piaciuta, questa cucina: Peperoncini crudi, semplici ma di un sapore indescrivibile. Foie gras con cioccolato amaro. Un uovo della stessa mattina con una pancetta straordinaria.

Il Tavolo di girasole con gambo di girasole ripieno di crema di midollo di bue, capperi e semi del girasole stesso, con chips di girasole... solo questo piatto valeva la cena. E poi Fagiolini e asparagi alla brace, pomodori e salsa rosa, e molti altri vegetali freschissimi, presentati, cucinati e abbinati in modo inconsueto. E infine delle Costine di maiale alla brace che sembrava di essere in paradiso. Tutto semplice? Forse, ma sempre tutto buono e inaspettato.

Daniel Humm e Will Guidara, la cucina e la sala di Eleven Madison Park

Daniel Humm e Will Guidara, la cucina e la sala di Eleven Madison Park

Eleven Madison Park. Altro giorno, altro ristorante. Questa volta è il più discusso di New York, anche perché se sei stato il primo ristorante al mondo è ovvio che il tiro al piccione si intensifichi. No, non abbiamo mangiato il piccione di Daniel Humm, qui da Eleven Madison Park, ma noi, almeno noi, siamo stati veramente bene. Il posto è straordinario, l'indirizzo prestigiosissimo, le cucine le più incredibili che io abbia mai visitato nella mia vita, con 82 (ottantadue!) chef che interagiscono in uno spazio straordinario, gigantesco, e cucinano per meno di 70 commensali.

Il servizio, poi, è rigoroso senza essere bacchettone, sorridente senza essere eccessivo, pronto alla risposta senza essere incalzante. Abbiamo trovato il pranzo leggermente lento, ma tale era la gioia di trovarsi in quel posto che i minuti ce li siamo goduti ugualmente.

E i piatti erano buonissimi, tra una prima portata meravigliosa tutta a base di pomodoro (in insalata, in bottoni e verdi con formaggio di capra), poi Caviale con uova benedict con mais e storione affumicato, un'Insalata di granchio con zucchini e limone (forse il piatto più bello, ma meno interessante), una straordinaria coda di aragosta intinta nel burro e arrostita, con vegetali e fagiolini, e soprattutto un fantastico Petto d'anatra, glassato in miele e lavanda, con mirtilli e cipolla

E poi il dolce. Una gioia degli occhi e del palato, questo pranzo. E, incredibile, non ci hanno neanche spennato, pur avendo noi bevuto un rispettabilissimo Agrapart. Insomma... Tre ristoranti. Tre posti in cui la gente si strappa i capelli per dire "ci sono stato" e postare quattro foto. Tre posti da mettere in calendario.


Dal Mondo

Recensioni, segnalazioni e tendenze dai quattro angoli del pianeta, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose

a cura di

Fulvio Marcello Zendrini

Triestino, partito dall'agenzia di pubblicità Armando Testa, ha ricoperto ruoli di vertice nei settori della comunicazione di aziende come Michelin, Honda, Telecom Italia. Oggi è consulente di comunicazione e marketing aziendale e politico, per clienti quali Autogrill, Thevision.com. Tiene lezioni all'Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e a quella di Genova. È docente presso Niko Romito Formazione, Intrecci Scuola di Sala e In-Cibum. Presidente dell'Associazione "Le cose cambiano", che lotta contro il bullismo omofobico

Consulta tutti gli articoli dell'autore