In 11 anni abbiamo capito com’è Del Cambio secondo Matteo (Baronetto): stilizzazione, pensiero, sottrazione. Quando lasciò Milano e Cracco e tornò nella sua Torino chiamato dal billionaire Michele Denegri (Diasorin, mica gianduiotti), il cuoco si trovò di fronte a un bivio: prendere la strada breve della consonanza con un ristorante di tradizione, fondato nel 1757, icona dell’ortodossia torinese, tutto ori, cristalli e velluti rossi o avventurarsi in una casa degli specchi (come quelli interpretati da Michelangelo Pistoletto nella sala contemporanea), tra astrazioni, riflessi e riflessioni?
Chi frequenta il Cambio conosce la risposta: i piatti del torinese sono essenziali come opere di Giacometti o Fontana. Il burro che glassa il salmone, l’alga nori che si fa acciuga al verde, il caviale che si nasconde tra le lenticchie, la pâte a choux che diventa una pappardella alle trippe. Cucina affilata come design, scaldata da ricordi d’infanzia. Cucina colta e riflessiva, come la città che la ospita. Per lo stile di Baronetto, che somiglia a nessun altro (pare un Giacometti che s’è messo a cucinare). Per gli arredi savoiardi dove s’è scritto il Risorgimento.
articolo a cura degli autori di Identità Golose
Tavoli all’aperto