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Guida ai ristoranti d'autore in Italia e nel mondo con i premi alle giovani stelle

Lima di Sara Porro

di Sara Porro
Una mesa tipica del ristorante Amaz di Pedro Schiaffino in avenida La Paz a Lima, quartiere Miraflores. «Provate le Caracoles de río», raccomanda Sara Porro, «sono lumache di fiume grandi come un pugno, servite con salsa de chorizo e sferette di tapioca». Una delle mille possibilità che offre la città (foto amaz.com.pe)

Una mesa tipica del ristorante Amaz di Pedro Schiaffino in avenida La Paz a Lima, quartiere Miraflores. «Provate le Caracoles de río», raccomanda Sara Porro, «sono lumache di fiume grandi come un pugno, servite con salsa de chorizo e sferette di tapioca». Una delle mille possibilità che offre la città (foto amaz.com.pe)

Ancora oggi, la maggior parte dei turisti diretti in Perù atterra a Lima e riparte subito, già il giorno successivo: li attendono Nazca e le enormi figure disegnate nella sabbia; Arequipa e la mummia di bambina, sacrificata per placare lo spirito della montagna; la capitale Inca di Cuzco, il trekking verso Machu Picchu…

Se uno poi arriva a Lima in invierno - ovvero quando da noi è estate - al risveglio, guardando fuori dalla finestra scopre il cielo grigio e basso, il sole celato da una coltre di nebbia che avviluppa ogni cosa. Così, sembra difficile non concordare con lo scrittore americano Herman Melville, che definì la capitale peruviana «la più strana e triste città che si possa vedere».

Meglio non farsi trarre in inganno da questa prima impressione: dedicando a Lima qualche giorno si scopre che la città merita al massimo metà della sua fama. Forse sì, è una città strana: una capitale coloniale, costruita un po’ frettolosamente dai conquistadores che alla quota di Cuzco (3.399 metri sul livello del mare) soffrivano troppo il soroche, il mal d’altitudine. Ma di certo non è triste: ha, invece, un’allegria contagiosa. 

Chiedo il permesso per un paragone forse un po’ provinciale: se Cuzco è come Roma, piena di monumenti a ogni angolo, Lima allora somiglia più alla mia città, Milano: è un luogo da vivere, non da contemplare con il naso all’insù. 

Il miglior approccio, allora, è sedersi in un bar qualunque a guardare la gente che passa bevendo Pisco Sour, il cocktail nazionale: si riempie uno shaker di ghiaccio, poi si aggiungono tre parti di Pisco (un distillato d’uva), una di succo di lime, una di sciroppo di zucchero, e infine un albume d’uovo. Si richiude con un movimento secco lo shaker lo si agita vigorosamente per un intero minuto, così da sciogliere tutto il ghiaccio. Il cocktail si completa con due gocce di angostura, che restano come pois sulla superficie bianca della schiuma. Nota bene: il Pisco è un cocktail un po’ traditore - la setosità della schiuma e l’acidità del succo di lime lo fanno sembrare quasi innocuo, ma per la verità è piuttosto forte.

Per questa ragione, meglio avere cautela con il Pisco catedral, che altro non è se non un Pisco sour supersize: si chiama “cattedrale” non perché il culto del Pisco corrisponda a una religione laica (come pensavo io inizialmente), ma perché i parrocchiani dell'alta società limena lo bevevano al bar la domenica, dopo essere stati a messa nella cattedrale. Il Pisco Sour sembra essere diventato l’ambasciatore della cucina peruviana nel mondo insieme al ceviche - di cui qui ho già raccontato un po’, ma torniamoci su.

Pisco Sour, il cocktail simbolo del paese: tre parti di Pisco, una di succo di lime, una di sciroppo di zucchero e albume d’uovo

Pisco Sour, il cocktail simbolo del paese: tre parti di Pisco, una di succo di lime, una di sciroppo di zucchero e albume d’uovo

A Lima il ceviche è, miracolosamente, quasi sempre buono. Con pochi soles, per esempio, se ne può mangiare una porzione generosa ai banchetti del Mercado de Surquillo, una destinazione imperdibile a prescindere con il suo timbro al naso di putrefazione, pollame e mango, che dà le vertigini. All’una è affollatissimo, l’ora di punta è la pausa pranzo degli impiegati dell’affollato quartiere. Un piccolo upgrade è la Cevicheria Bam Bam, su uno dei lati del mercato, un incrocio tra un ristorante vero e proprio – ha un soffitto, ad esempio, e persino una cucina – e un chiosco (niente pareti). Qui la specialità è il ceviche de conchas negras, ovvero con conchiglie nere.   

Un’opzione più gourmet (senza strafare), è La Picanteria, il cui intero menu è costruito intorno alle diverse varietà di ají, i peperoncini piccanti peruviani. Non si può parlare di cibo a Lima senza menzionare Gaston Acurio. Per capire cosa rappresenta in Perù, più che ciò che l’uomo dice di sé – non che le occasioni manchino, è virtualmente ubiquo sulla stampa e nella televisione peruviana – basta sentire quello che gli altri dicono di lui. Ogni grande chef peruviano – da Virgilio Martínez di Central, a Mitsuharu Tsumura di Maido – parla di Acurio (di Gastón, anzi) come del suo maestro. Il Premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa ha detto che «nessuno ha fatto così tanto per il Perù».

Deve parte della sua popolarità, certo, al suo impegno civile: ha fondato una scuola di cucina per insegnare un lavoro ai ragazzi delle periferie disagiate di Lima. Ma prima e più di questo: in Perù viene considerato colui che ha restituito a un intero popolo l’orgoglio nazionale – e non sto nemmeno esagerando.

Fino a dieci anni fa, in Perù l’alta cucina era francese o italiana: la possibilità di fare alta cucina con ingredienti e ricette locali non era nemmeno presa in considerazione. Tutto è cambiato quando Acurio, che aveva lavorato nelle cucine d’Europa a lungo ed era tornato in patria con una moglie tedesca, Astrid, aprì un ristorante, Astrid Y Gaston. In principio faceva cucina francese, ma ben presto si era stufato e, parafrasando Martin Luther King, aveva avuto un sogno: un giorno tutte le cucine sarebbero state uguali, avrebbero avuto pari dignità. Così ha fatto, scatenando una vera rivoluzione.

Se, anche grazie ad Acurio, nelle capitali del mondo cucina peruviana is the new cucina giapponese, a Lima è la cucina amazzonica a essere la nuova cucina peruviana. Può sembrare un paradosso, visto che in Amazzonia non esistono - ancora - grandi ristoranti (parliamo di un luogo remoto e misterioso: per darvi un’idea, la capitale dell’Amazzonia peruviana, Iquitos, è la più grande città del mondo a non essere raggiungibile via terra), ma l’immenso patrimonio di fauna e flora e frutti e radici custodito dalla foresta non interessa solo ai botanici ma anche ai gourmet. Lo splendido Amaz è - come si intuisce dal nome - dedicato alla cultura culinaria della regione: lo chef, Pedro Miguel Schiaffino, è impegnato da molti anni nello studio dei suoi prodotti. Provate specialità come Caracoles de río, ovvero lumache di fiume grandi come un pugno, servite con salsa de chorizo e sferette di tapioca, o la Patarashca - un pesce intero cotto alla brace e avvolto in foglie di bijao.

Mercado de Surquillo, «una destinazione imperdibile a prescindere con il suo timbro al naso di putrefazione, pollame e mango, che dà le vertigini» (foto photosouthamerica.com)

Mercado de Surquillo, «una destinazione imperdibile a prescindere con il suo timbro al naso di putrefazione, pollame e mango, che dà le vertigini» (foto photosouthamerica.com)

L’ispirazione del Central di Virgilio Martinez, invece, sono soprattutto le Ande, più in senso filosofico che strettamente culinario: come i popoli andini prima della conquista, pensa alla terra in modo verticale e non come un piano orizzontale: altitudini diverse significano flora e fauna differenti. Il suo menu degustazione è costruito utilizzando l’altitudine come bussola: dalle profondità del mare alla giungla fino alle altitudini estreme. Central è il genere di ristorante in cui, pur senza trascurare lo stomaco, è chiaro che all’ospite viene richiesto un lavoro di pensiero per decodificare anche gli aspetti nutrizionali, biologici e infine antropologici di ogni portata.

Coloro che non digeriscono bene la filosofia allora preferiranno forse Fiesta, dello chef Hector Solís, cucina di Chiclayo, una città costiera del Perù settentrionale - considerata una delle più saporite del paese. Ci sono versioni elevate di piatti tradizionali locali, come l’arroz con pato (riso con anatra) servito in porzioni singole all’interno di splendide cocotte smaltate, e una carta superlativa di pesce: dato che i pesci oceanici tendono a essere creature enormi, nel menu sono proposti tagli diversi - come fosse una steakhouse. Si va dal collar - la carne del collo - al doble lomo per gli amanti del filetto, dalla panza - che si spiega da sé - alla cotetilla, una parte gelatinosa e grassa vicino alla coda.

Se poi uno non sapesse (ancora) cosa vorrà mangiare, la soluzione ideale è Perù Pa'Ti, sorta di Eataly limeno (giusto per continuare nel mio filone di paragoni a km0). Questo ampio spazio pieno di colore è diviso in quattro stazioni: c’è un bar che serve impeccabili Pisco Sour e Chilcanos (Pisco, succo di limone e Ginger Ale); un forno dove trovare i panini gourmet dello chef Renato Peralto; un ristorantino che serve ceviche e tiradito (diciamo sashimi? Diciamo carpaccio? Ci siamo intesi); mentre sul retro un bar propone caffè eccellente, con tanto di barista vincitore di concorsi internazionali. Nella piazza centrale c’è un negozio che vende ceramiche, piatti di legno, e artigianato peruviano di alta qualità - un luogo ideale per comprare i souvenir da riportare a casa.

Sempre che non decidiate di fermarvi ancora un po’.

Sara Porro
Sara Porro

vive a Milano e ha scritto di cibo, viaggi e costume per numerose testate, tra cui Amica, New York Magazine e La Repubblica. Sul web, collabora a Dissapore e Food Republic e ha fondato Sauce Milan. Nel 2014 ha scritto con Joe Bastianich "Giuseppino" (UTET), vincitore del Premio Bancarella della Cucina 2015. Nel 2016, "Manuale di sopravvivenza amazzonica per signorine di città" (Edt)