18-06-2019
Marta Scalabrini, chef e titolare di Marta in Cucina, a Reggio Emilia
La prima cosa che si avverte scambiando quattro chiacchere con Marta Scalabrini è un profondo, emotivo e consapevole senso di responsabilità: nei confronti di chi siede alla sua tavola certo, ma anche (e altrettanta) verso produttori - micro e non - da cui ha scelto di approvvigionare la dispensa e la cucina del suo ristorante Marta in Cucina a Reggio Emilia.
L’occasione per approfondire quanto la chef – già “Migliore chef donna” per la Guida di Identità Golose nel 2018 - sia immersa in tematiche che oggi più che mai sono sulla bocca e nelle intenzioni proprie e di tanti suoi colleghi è quella del Distretto A week end, tre giorni di simbiosi tra arte e food nel centro storico di Faenza nel quale è andato in scena il sessantaquattresimo atto di Tempi di recupero, appuntamento nato all’Osteria della Sghisa che da sei anni chiama all’opera chef creativi, osti, azdore (le “reggitrici” della casa, regine del focolare e decisamente figure cardine della tradizionale famiglia emilanoromagnola, per la loro infinita operosità), ognuno a interpretare attraverso il proprio sapere temi quali il recupero, il quinto quarto, l’etica dello spreco zero, per proiettarli in un nuovo sentimento di convivialità che guarda al passato, ma con strumenti e coordinate attuali.
Con l'ideatore di Tempi di recupero, Carlo Catani
Per Marta Scalabrini, chiamata a interpretare attraverso i suoi piatti questi temi, «la sostenibilità è un argomento che può essere declinato sotto più punti di vista: da un lato, assieme al recupero, è stata la necessità di un particolare momento storico, quello delle nostre nonne che non avevano grandi panieri cui attingere e dovevano dunque trarre il meglio da quel poco che arrivava in casa. Negli anni di benessere successivi abbiamo dimenticato in molti di questa esigenza, poi per anni il fine dining ha preso una direzione in cui si privilegiavano “tagli nobili” e materie prime di eccellenza, sottovalutando forse che il gusto può essere ricercato e sublimato anche altrove, in parti considerate a torto di minore importanza o a cui la clientela dava una cattiva attribuzione di valore».
Con il compagno nel lavoro e nella vita Ivan Giglio
La chef reggiana ha attinto a piene mani dalla memoria e dai luoghi in cui vive ed è cresciuta: «Il punto di partenza è stato il parmigiano, perché tutti in città abbiamo un casaro in famiglia o soltanto a pochi gradi di separazione. Anche questo prodotto, in cui noi tutti ci identifichiamo molto, ha parti nobili e altre che per alcuni sono di “seconda importanza”, che storicamente finivano alle famiglie meno abbienti. Il mio pensiero è andato al siero, alla ricotta, al burro di affioramento (cioè dalla parte grassa che si scorpora e viene a galla durante la fase in cui una delle due mungiture, nello specifico quella della sera, rimane a decantare in caldaia), ho utilizzato croste, che a mio parere racchiudono davvero tanto sapore oltre che sapidità. Gestire certi tipi di materie è un lavoro stimolante: ti confronti con la storia, hai il dovere di valorizzare il lavoro dei produttori e devi far parlare davvero un territorio; un piatto è uno strumento per raccontarti questo, la conoscenza dello chef è indispensabile. La domanda che io mi pongo sempre è “Cosa posso fare per farti arrivare tutto?”, ma se riesco in questo intento è possibile che il cliente aumenti la sua soglia d’attenzione e magari cambi in meglio le proprie abitudini e i propri consumi, orientandoli verso etica e qualità: tutto allora ha un senso».
Tortelli di “vanzumi”, burro d’affioramento, brodo di siero di parmigiano e briciole di croste soffiate
Apelle figlio di apollo Ricrea il rituale delle patatine fritte intinte nelle salse: cotenna di maiale e pelli fritte di pollo, baccalà, peperoni, patate. Gli intingoli sono una prima salsa di recupero data dalla parte interna dei peperoni con un pizzico di origano, la seconda salsa di gambo di broccoli e cuori di cavolfiore bianco, la terza una ricotta aromatizzata con erba cipollina.
Tortelli di “vanzumi”, burro d’affioramento, brodo di siero di parmigiano e briciole di croste soffiate I “vanzumi” in dialetto reggino sono gli avanzi: per il ripieno sono stati utilizzati fegatini di pollo, polmoni, stomaco e un qualche parte carnosa che si trova nelle alette e nelle coscette, e che normalmente non finisce assieme alle parti di carni bianche. Nel brodo il siero di parmigiano è accompagnato da un olio al prezzemolo e qualche goccia di senape. Tocco finale tutto sapore: croste di formaggio soffiate al microonde e sbriciolate.
Panzanella toscana, tosone, parature di bolliti
La mela grattugiata
Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
a cura di
abruzzese, classe 1979, nel mondo della comunicazione dal 2001. Negli ultimi anni ha maturato una specie di ossessione per la ricerca continua di cuochi emergenti. Mangia, beve, scrive: di territori e ingredienti, di produttori e cuochi. E scatta tante foto, per non dimenticare nessun particolare