03-02-2016
Andrea Aprea, chef del Vun di Milano, e Nicholas Sawyer, respponsabile di Open Blue per l'Europa, con un bel cobia, pesce oceanico ora anche sul mercato italiano. La presentazione si è tenuta nella sede di ConviviumLab-Arte del Convivio, sempre a Milano
Il cobia non è un serpente, per parafrasare la Rettore, ma forse una proposta utile per l’ambiente e peraltro graditissima alle papille gustative e anche al cervello, se si ha l’obiettivo di una maggiore e migliore sostenibilità alimentare. Il cobia, con la “i”, ha un nome scientifico più complesso, come sempre accade: Rachycentron Canadum. E’ una specie di squaletto che solca gli oceani, nelle acque tropicali. Da noi è un perfetto sconosciuto: la sua presenza nel mar Mediterraneo è stata documentata una sola volta, nel 1986 in Israele; si presume possa esservi giunto attraverso il Canale di Suez. In effetti, potremmo tranquillamente continuare a ignorare la sua esistenza – e lui la nostra, che ne avrebbe solo vantaggi – se non fosse che…
Se non fosse che le acque sono sempre più povere di pesci, mentre il consumo aumenta, aumenta. Prendiamo il salmone: quello selvaggio atlantico è quasi estinto, quello del Pacifico sempre meno numeroso, allora a Natale o si spende una fortuna, o ci accontenta di quello d’allevamento. Poi però si scopre come vengono tirati su questi poveri esseri, e vien voglia di rifugiarsi nelle alici. A quel punto Pasquale Torrente ti spiega come siano sempre più difficili da pescare anche per lui che è uno specialista, e così via. Un circolo vizioso.
Invece di buttarsi in politica o tentare con la lotteria, l’oggi 36enne si dimostrò ingegnoso. Anzi lo era sempre stato. Racconta il National Geographic, che ha incluso il suo caso in un articolo del 2014 intitolato “Rivoluzione azzurra”: «Il futuro è nell’allevamento, dicevano sempre suo padre e gli zii, così Brian cominciò già da adolescente ad allevare lutiani rossi in una grossa vasca nella cantina della casa dei genitori». Ragazzate che si riveleranno fertili.
Perché quando si parla di itticoltura, se ne conoscono i vantaggi («Per produrre un chilo di pesce d’allevamento basta circa un chilo di mangime; per i polli il rapporto è di 2 a 1, per i suini di 3 a 1, per i bovini di 7 a 1», scrive sempre il prestigioso National Geographic), ma il gourmet tende a storcere sempre il naso. Ma c’è modo e modo di fare allevamento. Un conto è stipare centinaia e centinaia di candidati al nostro stomaco in angusti spazi, che siano stalle, porcilaie o vasche. O’Hanlon ebbe una felice intuizione, e persino la determinazione nel realizzarla. Oggi la sua società, Open Blue, 250 dipendenti, possiede grandi gabbie sottomarine a 12 chilometri dalla riva panamense di Costa Arriba, in piano mar Caraibico: impatto zero, acque pulitissime, ricche d’ossigeno, profonde, con forti correnti che consentono agli ospiti di guizzare quasi felici, un ambiente a bassa densità, ideale insomma per avviare una piscicoltura come si deve. Addirittura, l’area di circa 10 km quadrati è stata dichiarata zona marina protetta.
Abbiamo voluto la controprova. Perché l’altro giorno il cobia è stato presentato ufficialmente anche in Italia, nuovo mercato che Open Blue vuole testare dopo il successo negli Stati Uniti e quello in Germania e a Londra. Il primo Rachycentron Canadum al centro dei riflettori nostrani (ma già ha fatto la sua comparsa nelle pescherie della catena Metro, e altre seguiranno) si è palesato nei locali Convivium Lab-Arte del Convivio della Fondazione Vivante-Jovinelli, una struttura che collabora strettamente con Identità Golose. Presenti, il 26enne Nicholas Sawyer, responsabile di Open Blue per l’Europa, ma soprattutto lo chef Andrea Aprea del Vun di Milano, oltre a chi scrive e molti altri colleghi giornalisti. Ma soprattutto il pescione di circa un metro, serenamente spirato circondato dall’affetto dei suoi simili solo pochi giorni prima dell’arrivo in Italia: viene pescato con la tecnica giapponese Ike-Jime per garantire una qualità constante e una durata di quasi tre settimane.
Uno dei tre piatti cucinati da Aprea: un bel Cobia alla pizzaiola
Una festa per il palato, il cobia ha passato alla grande l’esame organolettico. A Sawyer è spettato il compito di indirizzare l’acquolina anche a una più profonda consapevolezza: «Il cobia è sostenibile, ecologico, abbondante, tracciabile». Ogni esemplare possiede un QR code con tutti i dati su nascita (che avviene in vasche sulla terraferma) e crescita, al largo di Panama, siamo tra Costa Rica e Colombia, come abbiamo visto. Il quotidiano Il Manifesto quattro anni fa riportava il parere del Worldwatch Institute di Washington, che definiva il cobia «una risposta al problema della sostenibilità», e anche – a chi interessa, noi tra loro – una piccola soluzione per le povere comunità della costa atlantica nel piccolo Paese centroamericano, che trovano nell’iniziativa di O’Hanlon un’inaspettata fonte di nuovo reddito, oltre a programmi specificamente dedicati alla formazione scolastica, alla salute e all’ambiente della zona.
Per finire, il prezzo: un cobia intero costa circa 15 euro al kg, che disossato e senza pelle balzano a 44.
Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
a cura di
classe 1974, milanese orgoglioso di esserlo, giornalista professionista dal 1999, ossia un millennio fa, si è a lungo occupato di politica e nel tempo libero di cibo. Ora fa l'opposto ed è assai contento così. Appena può, si butta su viaggi e buona tavola. Coordinatore della redazione di identitagolose.it Instagram: carlopassera