27-09-2017
A destra, Daniele Repizzi di Fondazione Progetto Arca, onlus fondata nel 1994 a Milano. Nel 2016 ha offerto un tetto a 86.000 migranti e clochard e servito oltre 2 milioni di pasti
Quando Daniele faceva il mediano spacca-gambe in seconda o terza categoria, sapeva che avrebbe appeso presto le scarpe al chiodo. Va bene la grinta, ma dava più garanzie il diploma dell’alberghiero Vespucci messo in tasca appena dopo la maggiore età. Avrebbe voluto viaggiare ben oltre i campacci dell’hinterland milanese. E così fece, infilandosi per qualche anno in affollate brigate di cucina in Spagna e Portogallo. Tornato a Milano, prese poi la regia del Cactus Juice di via Mecenate, tanti numeri al self-service di pranzo e specialità tex-mex la sera. Un cuoco come tanti fino a 6 anni fa, quando un incontro lo rende un poco più speciale: la Fondazione Progetto Arca gli chiede di sovraintendere alla cucina delle sue mense dislocate a Milano e oltre. Non clienti in giacca e cravatta ma persone senza una fissa dimora, disoccupati che vivono in strada, civili in fuga da paesi in guerra. Persone che, in quanto tali, pensa Alberto Sinigallia, fondatore della onlus, hanno diritto come tutti a un letto, un pasto caldo e dei vestiti puliti. Complice il conflitto in Siria, l’esodo dei migranti cresce ogni anno di più, ingrossando la clientela delle mense di Arca. Se nel 2012 ne accolsero 13mila, nel 2016 sono stati quasi 83mila. «In 5 anni», riepiloga Repizzi, «siamo passati da 400 a 5mila pasti serviti al giorno. Oltre due milioni in un anno».
In coda per il pranzo nella mensa colorata di Arca in via Mambretti
Essendo luoghi di transito, si chiedevano sulle prime i pedagoghi di Arca, quale tipo di cucina dobbiamo preparare? Pietanze del paese d’origine o di destinazione? I dubbi filosofici sono presto dissipati dalle cause di forza maggiore. «Tanti migranti», spiega Repizzi, «arrivano in condizioni precarie per quello che hanno subito nelle traversate: costole rotte, fratture, epatite C, donne gravide in condizioni precarie, bambini svezzati in modo improprio. Per tante diete non abbiamo scelta: diabetici o ipertesi avranno per forza bisogno di un’alimentazione iposodica. Gente con infezioni alla bocca o problemi all'apparato digerente potranno bere solo liquidi». Più spesso, occorre sedare i morsi della fame: «Appena arrivati, tanti hanno l’istinto di mettersi mezzo chilo di zucchero in bocca perché magari è un bene di lusso nel paese di origine. Altri, per lo stesso motivo, mangerebbero carne tutti i giorni e non si può. Il dado Maggi, poi, è così ghiotto che lo sbriciolerebbero e seminerebbero sopra qualsiasi cosa». In effetti i piatti in tavola debordano di cibo e il bis è quasi un riflesso incondizionato. Stanno in coda, pazientemente e poi scelgono il posto a sedere per affinità etnica.
Prevalgono fratellanza e solidarietà, conseguenze di sorti tragiche comuni. Nei menu che preparano c’è sempre una doppia scelta. «Alla maniera dei platos combinados di Spagna», spiega lo chef, «pasta o riso ai primi, due secondi e frutta e yogurt. Di pasta mangiano volentieri solo gli spaghetti perché conoscono solo quel formato. Noi spingiamo parecchio il consumo di legumi, le proteine vegetali».
La fede a maggioranza musulmana incide parecchio su ritmi e contenuti: «Nel periodo di ramadan, che ultimamente cade sempre nella stagione calda, mangiano e bevono tutti molto prima dell’alba. E poi riattaccano dopo il tramonto: datteri, succhi di frutta e latte per riattivare il metabolismo. Di giorno, se c’è bisogno di bere un goccio d’acqua per buttar giù una pastiglia, si rifiutano». In carta compaiono molto spesso zighini, curry, cous cous.
Fusi orari all'Hub di prima accoglienza di Arca, in via Sammartini
Daniele Repizzi con il suo braccio destro, Donatella Daffra
Il punto di Gabriele Zanatta: insegne, cuochi e ghiotti orientamenti in Italia e nel mondo
a cura di
classe 1973, laurea in Filosofia, coordina la Guida ai Ristoranti di Identità Golose e tiene lezioni di storia della gastronomia presso istituti e università. instagram @gabrielezanatt